Cultura e Spettacoli

Jovanotti ricomincia da zero: "Qui sono pop ma negli Usa..."

L'artista pubblica "Back up" e in estate canterà negli stadi italiani. Però ora vive a New York: "Ci provo ma non diventerò mai famoso"

Jovanotti ricomincia da zero: "Qui sono pop ma negli Usa..."

Alla fine Jovanotti è diventato una factory: trasversale, famelica, internazionale, spesso creativa, qualche volta contraddittoria. Coinvolge chiunque, e sempre meglio. «Mi sento ancora come una palla che rimbalza qui e là» ha spiegato ieri appena arrivato da New York. Ad esempio, prendete Backup - Lorenzo 1987 2012, il suo greatest hits riassuntivo di 25 anni di carriera. Esce oggi con nove brani inediti e quattro allestimenti diversi, dall'edizione standard (due cd) fino al clamoroso megabox. Con sette cd. Con il libro inedito, ossia Gratitude (autoracconto in 118 pagine). Con il Photobackup fotografico. E con, prima volta in Italia, una chiavetta usb da 8 giga che accolgono tutta la sua discografia. Lui riassume: «È un best fatto con l'applausometro: ci ho messo dentro tutti i miei successi e i brani significativi. Le mie cose migliori non sono agli inizi, ma agli inizi avevo la stessa energia di oggi». E al di là del progetto monumentale, l'identikit della factory Jovanotti si realizza anche attraverso le collaborazioni, gli incontri, il ricamo di amicizie che solo per Back up raccoglie Muccino (regista del video Tensione evolutiva), Benny Benassi (in Ti porto via con me) e Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari (le immagini di copertina). Insomma da quando era solo lo sciamannato di Gimme five sbertucciato dai critici, lui ha collaborato con - citati a caso e solo un po' - Pavarotti, Michael Franti, Sergio Mendes, Celentano, Mousse T e Ornella Vanoni. È stato un pischello con le mani sulla console, un rapper, un nonsisaché e alla fine, oggi a 46 anni, un cantante a modo suo che sembra sempre quel ragazzetto là: «Ricordo ancora con soddisfazione quando ho potuto scrivere la parola artista sulla carta d'identità». Ne avrà parecchie anche dal suo primo tour negli stadi: dieci date e solo per quella di San Siro il 19 giugno sono andati via trentamila biglietti in poche ore. «Per un cantante come me è il massimo». E difatti anche gli inediti di Backup (titolo azzeccato: dà l'idea del riassunto senza nostalgia autocelebrativa) sono nati pensando agli stadi: «Gli stop and go di Tensione evolutiva (molto dubstep - ndr) sono perfetti per spazi così, dove musicalmente vincono le esagerazioni, i pugni o gli schiaffoni o le estreme carezze. Negli stadi il concerto inizierà a metà pomeriggio, magari avrò Benassi o altri, anche non deejay: mi sto facendo venire un'idea e poi tutto partirà da lì».

Quando parla, anche se è azzoppato dal fuso orario, Lorenzo Jovanotti Cherubini («chiamatemi come volete») ha il fascino imberbe di chi crede (o magari solo fa credere, ma non si direbbe) in quello che dice. Persino quando parla di Renzi, che ha votato e voterà, spiegando che lui è un rottamatore «ma io mi sono rottamato a ogni ripartenza della mia storia». O quando difende l'Italia («All'estero siamo adorati») oppure Zucchero, criticato da qualcuno perché fa un concerto a Cuba: «Andare a suonare per un popolo non significa suonare per chi lo governa». Quindi figurarsi quando accenna alla sua vita a New York: «L'etichetta indipendente per cui ho pubblicato il mio disco americano mi ha chiesto la disponibilità a stare lì. Allora ho detto a mia moglie: “Prendiamoci un periodo di vita americana”. Adesso mia figlia Teresa va al liceo, impara bene l'inglese e io sono felicissimo». Difatti già oggi è sul volo per tornare nella nuova casa.

Con un sogno: «Mi piacerebbe entrare laggiù nel giro dei concerti, magari incidere qualcosa in inglese anche se so che non diventerò mai famoso». Magari tutto dipende dall'indole di questo vagabondo senza bussola che ha sempre preso il biglietto di sola andata: «E pensare che ora qui in Italia sono il più pop di tutti mentre negli Usa sono il più alternativo: etichetta piccola, concerti nei club...». Per questo pubblica Backup, che è il riassunto, come spiega lui, «del viaggio di una generazione non annunciata: ci sono i figli della guerra, i sessantottini eccetera. Ma noi non siamo nulla di preciso: siamo frammentati». E di questo caos lui è diventato uno dei fil rouge che servono a sfogliare il nostro tempo.

E a capirlo, dopotutto.

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