Cultura e Spettacoli

L'avarizia è un vezzo o soltanto un vizio?

Ritorna periodicamente sulle scene l'Avaro di Molière come è giusto che sia trattandosi di un classico dall'ambiguità. E diciamo ambigua con ragione poiché ambiguo se non addirittura indecifrabile appare il carattere del protagonista. Dato che l'Arpagone creato dal signor di Molière, tanto per restare in Italia, appare di volta in volta diverso. E, tanto per la cronaca, se per Missiroli e Tognazzi era uno sciocco, per Peppino de Filippo un buontempone e nell'eccellente edizione di Lavia la vittima di una sindrome ossessiva che non gli lasciava tregua. Infatti la maggior parte delle volte l'abbiamo visto vagare per la scena inseguendo il suo scrigno ricolmo di oro e gioielli che appare e scompare. Mentre Alessandro Benvenuti ne fa una sorta di eroe negativo che sembra sbucato da un romanzo di Balzac. Come se l'attore e il commediograforegista Ugo Chiti avessero optato per un uomo privo di una psicologia originale che vaga attraverso una famiglia prigioniera delle regole di casta. Da cui riesce a districarsi solo a patto di variarne continuamente la misura. Ha ragione Sartre quando sosteneva che l'Avaro è un'ironica rivisitazione degli eroi di Aristofane. Questa credo sia anche stata l'idea predominante che ha guidato questa applauditissima messinscena che gioca con sarcasmo e ironia la carta del continuo scontro tra il protagonista e le sue maschere, sia in senso proprio che figurato. In una bella serata di comicità surreale che coinvolge con spirito l'intero cast.

In cartellone al Festival di Borgio Verezzi

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