Cultura e Spettacoli

Moura, un Escobar perfetto. E ora i narcos lo minacciano

Parla l'attore che incarna alla perfezione il trafficante colombiano: "Ancora una stagione e lascio il ruolo"

Moura, un Escobar perfetto. E ora i narcos lo minacciano

nostro inviato a Los Angeles

Lui sembra tutt'altro che un narcotrafficante. Quando parla, Wagner Moura non ha neanche l'accento colombiano di Pablo Escobar, il re di tutti i trafficanti che interpreta in una delle serie più commentate del mondo: Narcos. La seconda carrellata di dieci puntate arriverà su Netflix a partire dal 2 settembre e sul web è una continua mitragliata di indiscrezioni, spoiler veri o finti, dichiarazioni e assicurazioni. Di certo, come spiega lui in un pomeriggio al London Hotel di Los Angeles, ci sono alcuni problemi collaterali, chiamiamoli così, visto che dopo la sua interpretazione è stato minacciato dal fratello del re della cocaina. «E dire che lui non è neppure citato in nessuna delle puntate. Non capisco come mai sia intervenuto ma mi rimetto a ciò che deciderà Netflix».

In poche parole, Roberto Escobar da «un luogo imprecisato della Colombia» avrebbe mandato (obbligatorio il condizionale) al sito di gossip americano TMZ una lettera per Netflix dai toni minacciosi anzichenò: «Spero non stiate facendo profitti dal mio show, e se lo state facendo vi chiedo di dividere i guadagni con noi». Caspita. E c'è di più: «A mio fratello non sarebbe piaciuta la prima stagione, magari gli piacerà la seconda se risponderete e risolviamo il problema». Linguaggio esplicito. Sottintesi minacciosi. «Non ci dobbiamo mai dimenticare che Pablo Escobar era un criminale e faceva parte di un mondo che in Italia è stato raccontato bene da Roberto Saviano», premette Moura, con quel suo accento brasiliano spalmato su di un inglese fluente. Ha quarant'anni, arriva dallo stato di Bahia e ha le idee chiare. Narcos è stata la sua grande occasione per farsi conoscere fuori dal Brasile e difatti, ora che parte la seconda stagione, ha deciso che per lui sarà l'ultima. Il rischio, si sa, è quello di fondere la persona con il personaggio e restare per sempre nell'immaginario collettivo come il señor Escobar, uno dei simboli del male del Novecento. «Quando è morto, nel 1993, aveva 44 anni e per la sua gente era in quella zona d'ombra tra nero e bianco, in quel grigio tipico di chi qualche volta si è distinto anche per slanci di solidarietà».

In sostanza, un criminale vecchio stile tipo i padrini di «Broccolino» o qualsiasi altro super capo della criminalità che, per lavarsi la coscienza, erano disposti a fare beneficenza per darsi una spolverata etica di fronte a concittadini e politici. «Prima di interpretarlo, ho letto tanto su di lui, tutti i libri possibili e gli articoli sui suoi crimini e sulle nefandezze della sua storia di enorme spacciatore». Pablo Escobar è considerato il criminale più ricco di sempre, visto che a inizio anni Novanta il suo patrimonio si sarebbe aggirato intorno ai novanta miliardi di dollari, praticamente il Pil di una nazione medio piccola. Poi, a fine dicembre 1993, una squadra colombiana di sorveglianza elettronica lo individuò in un quartiere alla periferia della sua Medellín. Lo inseguì. E lo uccise: un colpo alla gamba, poi uno alla schiena e quello decisivo dietro l'orecchio. Il suo cartello morì con lui, arrivò quello di Calì, che poi fece la stessa fine seguendo il solito rituale degli spacciatori di droga: ascesa, successo, morte o galera. «Narcos non è una serie focalizzata soltanto su Pablo Escobar, ma riguarda tutti i meccanismi complessi e marci dello spaccio di droga. Lui è centrale nella trama soprattutto attraverso il suo profilo umano, che ci interessa di più di quello criminale». In sostanza, Narcos è partita dal più famoso di tutti per poi allargarsi, magari, a un'altra vicenda analoga. Dopotutto già in Scarface di Brian De Palma con Al Pacino nel 1983 comparivano «great drug dealers», grandi spacciatori colombiani.

Narcos, che è diretto da José Padilha e ha guadagnato due nomination ai Golden Globe, parte più o meno da quel momento lì, poco prima della metà degli anni Ottanta, per raccontare l'epopea di Pablo Emilio Escobar Gaviria, un nome, un simbolo. Quando era proprio al massimo del successo (curioso definirlo così), Escobar controllava il 30 per cento delle armi circolanti per il mondo e l'80 per cento della cocaina. E intorno a lui il sangue scorreva ancora più della polvere bianca. Il sangue e il denaro. Tantissimi se ne sporcarono, a migliaia ci lasciarono la vita e qualcuno, come il portiere della nazionale di calcio colombiana Higuita, ci rimise la carriera. «Questa è una storia esemplare, nel senso che serve da esempio per capire come funziona il traffico di droga nel mondo. Ed Escobar è servito come apripista perché è stato lui che ha creato per la prima volta un sistema capace di operare in tutto il mondo con una incredibile capacità di penetrare nel tessuto sociale di tantissimi Paesi».

Insomma, Escobar è il padre di tutti gli spacciatori, ma non è ovviamente l'unico. E se Wagner Moura ha annunciato che per lui «it's over», è finita, è probabile che Netflix abbia già deciso di prolungare la serie spostando soltanto il baricentro focale della trama. «Narcos parla soprattutto di cocaina e di come viene commerciata illegalmente», precisa Moura. E, parlando davanti all'Associazione dei Critici Televisivi americani, il regista Padilha ha confermato che Narcos «continuerà a essere lo show che è stato finora». Sostanzialmente, potrebbero cambiare gli attori e il copione ma non il marchio.

Chi invece cambierà ruolo è senza dubbio Wagner Moura che ha già in mente di dirigere un film su di un altro eroe, questa volta considerato positivo: Carlos Marighella, origini italiane, soprannome impegnativo («il Che Guevara brasiliano») e storia vorticosa che si concluse in una pozza di sangue di un marciapiede a San Paolo nel 1969. Era un rivoluzionario, per quanto possa valere questa definizione.

«E a me queste storie piacciono», sorride Moura, ben sapendo che, per raccontarle bene, bisogna stare ben attenti a non innamorarsene.

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