Cultura e Spettacoli

Zeffirelli: "Non mi sento novantenne ancora vivo da lottatore"

Franco Zeffirelli, che compirà gli anni martedì prossimo, racconta i suoi successi. "All'estero era più facile. In Italia teatri e strutture erano legate alla politica"

Zeffirelli: "Non mi sento novantenne ancora vivo da lottatore"

nostro inviato a Roma

«Sono giunto agli ultimi vagiti della mia esistenza. Lascerò un mondo che non mi piace, con questa varietà di schieramenti e questo carnevale di opinioni. In America e in Gran Bretagna ci sono due partiti. Era così anche in Italia alle prime elezioni dopo il fascismo. C'erano i comunisti e la Democrazia cristiana, Peppone e Don Camillo... Quel Grillo si metta con la sinistra. Invece, chiunque fa una pensata s'inventa un partito. E l'opinione pubblica è disorientata. La politica dovrebbe aggregare, non disgregare». Battagliero e vitale, Franco Zeffirelli è seduto a un grande tavolo, circondato dai suoi cani nella casa alle porte di Roma. Sta lavorando alla Fondazione, in collaborazione con il comune di Firenze, che porterà il suo nome e raccoglierà costumi, bozzetti, volumi dalla biblioteca. Per il novantesimo compleanno, martedì prossimo, i due figli adottivi, Pippo e Luciano, stanno organizzando una grande festa con 80 invitati, gli amici di sempre. L'estate scorsa il suo allestimento del Don Giovanni a Verona è stato un successo. «Ho vissuto un secolo pagando sempre con il mio sangue», torna alla carica. «Sono stato partigiano, ho lottato per la libertà».

Ha sentito che cosa ha detto Berlusconi su Mussolini? Che ha sbagliato a fare le leggi razziali, ma ha fatto anche cose giuste.

«Doveva impegnarsi per fare tutto male. Però è vero. Per esempio ha protetto l'arte. Tutti i grandi cantanti d'opera erano fascisti, i direttori un po' meno».

Maestro, che cosa l'appassiona ancora a novant'anni?

«Le tante cose sbagliate che vedo. La mancanza di equità sociale e di rispetto per chi ha talento. Ma non mi sento novantenne, se non per le tante cose che ho fatto».

Va ancora a teatro o al cinema?

«Sì, anche se sono diventato insofferente. Vedo poco talento in giro. Abbiamo perso molta qualità. Ho assistito all'esplosione a Londra dei Beatles, dirigevo Shakespeare. Altri tempi. Oggi è tutto prevedibile».

Non c'è un attore, un interprete che le piace?

«Non vedo grandi fenomeni. Nemmeno nel campo della musica. Gli anni migliori sono stati i Cinquanta e Sessanta».

Cosa pensa di Roberto Benigni, toscano come lei?

«Non mi piace. Non ha il background culturale per spiegare la Divina Commedia sgambettando di qua e di là. Invece mi è piaciuto quando ha fatto la Costituzione in tv».

Come giudica i registi teatrali venuti dopo di lei?

«Molti mancano di personalità. Certo, Ronconi è un gran regista e il Piccolo Teatro ha creato una scuola che magari non è la mia. Ma bisogna riconoscere che era un covo culturale interessante, al tempo con ciò che succedeva nel mondo. Un po' come il teatro tedesco degli anni Venti».

Lei capitò nel teatro dove Visconti sbraitava contro i suoi collaboratori perché non gli trovavano un'attrice giusta che gli procurò lei e sul set mentre la Magnani imponeva a Luigi Zampa di cercare un nuovo attore: lei. Fortuna o destino?

«Il destino lo cerchi e lo insegui. Però devi sapere quello che vuoi per fare le scelte giuste. In Italia non avevo vita facile, perciò andai a Londra, mi dedicai a Shakespeare, ho avuto l'onoreficenza della regina d'Inghilterra».

Più successo all'estero...

«Da noi teatri e strutture erano legati alla politica. Io andavo per conto mio e prendevo cose nuove. La cosa non fu molto gradita. Pensi che un mio film non ha mai partecipato alla Mostra di Venezia».

Però qui ha avuto la sua consacrazione con il Gesù, il Gesù di Zeffirelli...

«Il Vaticano, che era fuori dai giochi, mi volle fortemente, insieme con gli inglesi che lo produssero con la Rai».

Nel suo Gesù recitarono Laurence Olivier, Anthony Quinn, Anne Bancroft: un cast internazionale. Ma il ruolo del protagonista fu affidato a Robert Powell, un attore di teatro inglese.

«Diventò Gesù per caso, doveva fare Giuda. Quando lo vedemmo ci fermammo. Aveva una moglie bellissima ed era molto bramato dalle donne, ma si negò. Perché, diceva, altrimenti il giorno dopo avrebbe avuto problemi a interpretare il Nazareno».

Teatro, cinema, televisione, lirica: qual è il lavoro di cui va più fiero?

«Un film che ho amato molto è stato Storia di una capinera, bellissimo ma troppo triste. E poi Fratello sole sorella luna, mi sentivo sollevato da terra. La scena in cui Francesco salva un passerotto sulla torre di San Gimignano l'ho ancora in mente».

E il film che non rifarebbe?

«Il Giovane Toscanini, problemi di sceneggiatura».

Perché la sua arte non è mai stata consacrata da un grande festival o dall'Oscar?

«In America avevano paura a premiarmi, comandavano certe massonerie. Io non mi davo da fare per la promozione. Non ho mai avuto il problema di diventare ricco, famoso e internazionale. Per dieci anni sono stato osannato come un idolo, ma mi chiedevo chi mi volesse veramente bene. Le donne sono state molto importanti, la Callas, Liz Taylor, Lina Wertmüller, portatrici di vita».

Lei è figlio di N.N. perché frutto di una relazione adulterina, l'incontro decisivo della sua vita fu con Visconti, regista aristocratico ma comunista, è omosessuale e cattolico. Si sente straniero in patria?

«Da bambino un giorno ricevevo affetto e il giorno dopo non più. Ho sempre avuto coscienza della mia differenza. Ma non ho molto sofferto di solitudine. Forse ho avuto troppe patrie. Visconti divenne comunista in Francia quando incontrò Jean Renoir. Sono stato amato e rispettato anche dalla Chiesa. Paolo VI volle che filmassi l'inaugurazione dell'Anno Santo».

Nella sua autobiografia scrive che «l'uomo nasce per imparare, poi per aggiungere del suo; infine, deve consegnare questo patrimonio a chi verrà dopo di lui». Per cosa sarà ricordato?

«Dagli specialisti per le mie conquiste culturali e il mio senso estetico.

Dal grande pubblico per Romeo e Giulietta, Fratello sole, e il Gesù di Nazareth».

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