Cultura e Spettacoli

Paganini rockstar, con il violino fu come Hendrix con la chitarra

Una mostra confronta i due grandi maestri. Così diversi, così simili

Paganini rockstar, con il violino fu come Hendrix con la chitarra

C'è un filo conduttore lungo un secolo e mezzo che attraversa il Palazzo Ducale di Genova: corre da Niccolò Paganini a Jimi Hendrix, dalla prima rockstar di sempre a una delle poche che abbiano davvero cambiato il Novecento. La mostra Paganini Rockstar (curata da Roberto Grisley, Raffaele Mellace e Ivano Fossati) è un viaggio su due binari che sono distanti nel tempo ma paralleli nel significato. Entrambi virtuosi assoluti, anche se il genovese Paganini fu anche chitarrista e non si sa se Jimi Hendrix avesse confidenza con il violino. Entrambi esagerati, sconvolti, estremi, amatissimi dal pubblico. Tutti e due votati alla velocità di esecuzione solo a condizione che fosse scintilla di improvvisazione oppure di ispirazione.

E se il successo di una Mostra inizia dall'idea, quella allestita fino al 10 marzo nell'Appartamento del Doge a Palazzo Ducale è un'idea vincente e neppure tanto praticata: il confronto tra opposti per scoprirne le vicinanze, alla faccia delle frigide barriere formali o cronologiche. Quando appariva per suonare in pubblico, così magro, emaciato, la punta del naso sempre più vicina al mento, i capelli lunghi, le dita nervose (si dice avesse una sindrome marfanoide che comporta l'aracnodattilia, ossia dita estremamente lunghe e mobili) , Niccolò Paganini era già una rockstar. Catalizzava il pubblico. Forse lo inquietava. Suonando, lo entusiasmava. E, come si dice oggi, piovevano standing ovation. Una volta al Teatro Carignano di Torino il re Carlo Felice gli fece chiedere di ripetere un brano e lui, che improvvisava così tanto da non potersi replicare, gli fece rispondere che «Paganini non ripete». Insomma era una rockstar prima che esistesse il rock, o forse l'idea di rock è nata già con lui.

Come Hendrix, costruiva la musica intorno al proprio virtuosismo. Il chitarrista aveva creato la Band of Gypsys, della quale era il sole. Paganini si limitava a orchestrazioni semplici per tenere il violino in primissimo piano e consegnava le partiture ai direttori d'orchestra solo all'ultimo momento, in modo tale da tenerle segrete. E poi, con il vezzo tipico del virtuoso, suonava accordi di difficile impostazione e ricorreva a trilli o a complicati salti melodici di diverse ottave che lo rendevano quasi impossibile da imitare (si dice che lo facesse anche per poter essere l'unico a eseguire la propria musica e quindi a guadagnarci di più). Paganini non ripete ma è anche difficile da suonare, proprio come Hendrix, il cui suono ancora oggi si riconosce alla prima pennata. E poi entrambi erano scenografici ante litteram. Paganini incideva le corde del suo violino prima di andare in scena (a parte quella di sol) in modo tale che si rompessero una dopo l'altra fino a concludere il concerto suonando una corda sola. Hendrix fracassava o addirittura incendiava la propria chitarra, come anche a Monterey nel 1967.

Ed è su questi due binari che la mostra di Palazzo Ducale porta, in 7 sezioni, il visitatore in mondi così lontani ma così vicini, attraverso oggetti (ad esempio il celebre «Cannone», ossia il violino Guarneri del Gesù oppure un frammento della chitarra di Jimi a Monterey), documenti, statue e ritratti, elementi scenici di grande impatto come l'inedito brano di danza di Roberto Bolle sul Capriccio 24 eseguito dal prodigioso violinista Leonidas Kavakos. Un viaggio emozionante che salta le divisioni di genere e va dritto al significato di arte, che è libertà al servizio del talento.

Anche quando è imbizzarrito e straripante.

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