Cultura e Spettacoli

Con Ris, terroristi e topi i drammi diventano farse

Con Ris, terroristi e topi i drammi diventano farse

Jerry, protagonista di una delle storie che compongono To Rome With Love, è un regista ipocondriaco, un po’ suonato e a riposo. Svela ai suoi futuri co-suoceri romani, un cassamortaro e consorte, la ragione dello scarso successo delle sue messe in scena. Erano troppo avanti sui tempi. Nel suo Rigoletto tutti erano vestiti da topi bianchi. Ha ragione Woody Allen, protagonista e regista del film di cui si parla, che interpreta il frastornato regista Jerry, oggi una simile idea, diciamo interpretativa - «rattificare» Rigoletto, Gilda, Duca e cortigiani - sarebbe salutata in molti teatri europei come una trovata, perfetta per svecchiare il datato soggetto, tratto dal dramma di Victor Hugo Il Re si diverte (ribattezzabile I Topi si divertono): comunque meglio in una fogna che in un palazzo rinascimentale. Un illustre critico musicale, Mario Bortolotto, non certo rubricabile di passatismo, ha scritto un impareggiabile decalogo indirizzato ad un giovane regista, pregandolo di evitare la solita trasposizione di Tosca all’ombra del Terzo Reich o in orbace, magari rispettando il bellissimo scenario voluto da Sardou e seguito da Puccini, Illica & Giacosa, in cui il preciso momento storico, la battaglia di Marengo (giugno 1800), ha valore storico fondamentale. A suon di proclamare come imprescindibile la necessità di adeguare il melodramma al «nuovo», si vedono venir al mondo creature come la Tosca con la regia di Luc Bondy, dove durante il Te Deum, circolano anche una Madonna pellegrina, gli incappucciati dei Misteri di Trapani, e un andirivieni di porpore cardinalizie degne per la quantità, più che di una funzione in basilica, di un Concilio in Vaticano.
C’è poi una categoria registica, quella degli intellettuali tedeschi, sempre gravida di pensate, detriti dell’espressionismo. Per sottolineare l’aspetto «giocoso» del Don Giovanni, Peter Mussbach fa entrare il burlatore di Siviglia su una Vespa (sai che risate). Ma siccome nel capolavoro di Mozart convive anche l’aspetto del «dramma», la scena fissa è invasa da un muro rotante, che costringe implacabilmente i cantanti a scappare al suo approssimarsi e gli spettatori alla noia del trito meccanismo, pur simbolico quanto pare.
Ma i Pensatori non sono esclusiva tedesca, perché quelli di casa nostra seguono di un’incollatura. Non ci fanno mancare né i bignamini di psicoanalisi (l’immancabile lettino) né le intromissioni «stranianti», predilette quelle di troupes televisive - che già trent’anni fa Jerome Savary sguinzagliava dietro i buffi personaggi del Fra Diavolo di Auber. Telecamere che imperversano ancora nella presente stagione come nel Candide di Bernstein, ambientato dal regista Lorenzo Mariani in uno studio Tv anni ’50, ma che pare piuttosto qualcosa tra l’obitorio sovraffollato e il set di un laboratorio del RIS. Per non parlare poi della mania dei cubi fra i quali rotola Violetta nella Traviata di Laurent Pelly e incespica la Cenerentola di Luca Ronconi, la cui impraticabilità è costata alla protagonista conseguenze ortopediche. In questi casi, poveri cantanti. Se le scene sono spesso improntate alla più estrosa varietà; i costumi prediligono l’imitazione delle tendenze modaiole, come nei bauli di un sarto che mescoli Tom Ford a Rocco Barocco. Allora forse invece del solito capospalla gessato, lungo molto lungo, o degli eccitanti leggins in lattice o in pelle, proviamo le calzamaglie da topi bianchi del Jerry dell’amato Woody Allen. Il celebre regista newyorchese ha dato un saggio del suo virtuosismo rappresentativo quando ha messo in scena a Los Angeles e al Festival di Spoleto il Gianni Schicchi di Giacomo Puccini. In omaggio al suo amato cinema italiano, nel rispetto della toscanità di cui è imbevuto sin dalle origini dantesche il soggetto dell’opera, Allen ha spostato l’azione nella Firenze del Secondo dopoguerra. Ma Woody Allen è Woody Allen. Con la sua mano leggera e ironica e la sua maestria ha reso lieve persino una salma. E con l’umorismo proprio del commediante ebraico il morto aveva le fattezze di Woody, e al capezzale la fotografia del Papa cattolico dell’epoca, Eugenio Pacelli. Gli stessi «nuovi colti» che si sciolgono di fronte agli «aggiornamenti» nelle regie d’opera, tirano le orecchie - figuriamoci - a Woody Allen, addebitandogli timidezze di fronte al mondo melodrammatico.
Per ritornare a Jerry, il protagonista dell’esilarante e intelligente ultimo film di Allen, sarà anche rimbambito, ma le orecchie le ha buone. Quando sente il co-suocero cantare sotto la doccia ne intuisce le qualità (che nella realtà sono quelle del valente tenore italiano Fabio Armilliato). Ma all’asciutto, cioè fuori dalla doccia, le cose non funzionano più. Di qui la somma genialità di organizzare per l’improvvisato tenore una prestazione in pubblico sotto la doccia. E il miracolo si riproduce con una perfetta esecuzione del dramma dei Pagliacci di Leoncavallo. C’è tutto: una tradizionalissima messa in scena con coltellata finale, sempre con Canio sotto l’acqua corrente della cabina-doccia ultramoderna. Successo delirante. «Vedi un critico mi ha definito con una parola latina», dice Jerry alla moglie, «minus habens».

Senza volerlo, o forse sì, Woody Allen, ha definito la categoria degli zelatori del «nuovo».

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