Cultura e Spettacoli

"Siamo Vagabondi, perciò nel mio libro faccio zapping da una storia all'altra"

La vincitrice polacca del Man Booker: "L'ho costruito come una rete"

"Siamo Vagabondi, perciò nel mio libro faccio zapping da una storia all'altra"

«Quando ho consegnato il manoscritto al mio editore, in Polonia, pensavano che avessi mischiato le bozze... Avevo un contratto per un romanzo, e quello che cos'era? Erano appunti, a loro non sembrava neanche un libro». Però Olga Tokarczuk era convinta: «Avevo scritto un libro realistico, ero stata molto onesta». Poi quel libro, I vagabondi (Bompiani, pagg. 384, euro 20), ha vinto il più importante premio letterario polacco nel 2008 e, nel 2018, l'International Man Booker Prize. La scrittrice (nella foto di Maciek Nabrdalik) ne parla questa sera a Torino (Circolo dei lettori, ore 21).

Chi sono i vagabondi?

«Sono i Bieguni, i membri una setta eretica del XVIII secolo. Per loro, chi crede in Dio dovrebbe essere sempre in movimento: è l'unico modo per pregare e per sfuggire al demonio, che è tutto ciò che è stabile. Inoltre, nelle lingue slave, al cuore della parola c'è bieg, che significa fuggire».

Perché dice che i tiranni odiano i vagabondi?

«È come per i politici di oggi: quello che è in movimento è pericoloso, perché può accadere qualunque cosa. Se invece mantieni le cose stabili, puoi governare facilmente. Ci vogliono attribuire un codice a barre».

La protagonista dice di essere consapevole, fin da piccola, che «il cambiamento è più nobile della stabilità».

«Il narratore non sono io. Ma sono d'accordo».

Anche lei viaggia molto, come la narratrice?

«Quando ho scritto il libro, tredici anni fa, sì, viaggiavo molto, quasi ovunque. Ora meno».

Come ha costruito la struttura del libro, che passa dal cuore «trafugato» di Chopin al servo di colore impagliato dell'imperatore d'Austria, dagli anatomisti olandesi alla scomparsa di una donna?

«Viaggiavo tutto il tempo, così prendevo appunti. La prima idea era quella di scrivere un memoir di viaggio classico. Ma poi mi sono resa conto che oggi è impossibile, perché il modo di viaggiare è cambiato. E ho capito che viaggiare ha un legame con lo zapping, con il saltare di qua e di là: è qualcosa di non lineare, di spontaneo, e perfino di simultaneo».

Cambia anche il tempo?

«Se sei a Roma, nel 2019 e, allo stesso tempo, sei all'inizio della civiltà. Siamo sempre immersi in reti di esperienze: così ho concepito la struttura del libro come una rete. Il mio compito era concentrarmi sui piccoli punti che connettono i fili, mettendo del collante».

Perché «descrivere è distruggere»?

«Perché è rendere qualcosa stabile, fermarlo: dai una sola versione della storia. Quello che è scritto è un po' morto. In quel caso mi riferisco alle guide di viaggio».

Vale per la scrittura in generale?

«È pericoloso descrivere qualcosa. A volte ho paura. Per esempio, il mio nuovo libro è un romanzo storico su un falso messia nella Polonia del '700, Jacob Frank. Ho scritto la mia versione, ho fissato la storia e, se ci penso, questo mi mette a disagio. Ho saputo che Bompiani lo tradurrà e lo pubblicherà».

È un libro molto diverso da I vagabondi?

«Sì, ma è simile perché ricorrono i motivi del cambiamento e del movimento, che io amo».

Ama anche molto i corpi, che descrive nei minimi particolari.

«Per me il corpo è un miracolo. Noi lo consideriamo un contenitore: siamo nel corpo come in un mezzo di trasporto, viaggiamo in esso. E sì, sono un po' ossessionata dall'anatomia. Ho studiato Psicologia, ma grazie a una borsa di studio ho passato un anno ad Amsterdam ad approfondire Storia dell'anatomia».

Ma perché le interessa così tanto?

«Una volta ero dal dottore e ho pensato: è una ignoranza scandalosa che non sappia come è fatto il mio fegato, o come sia costruito il mio cuore».

Perché racconta anche mostruosità e dettagli truculenti?

«Credo nella filosofia della periferia: a uno scrittore non interessa quello che è al centro, ciò che tutti già conoscono. A me piace girare in periferia, dove finiscono le cose mostruose e imperfette: le cose più interessanti stanno in luoghi oscuri, dove nessuno vuole guardare. Forse è anche perché sono psicologa clinica...»

Che cosa significa avere una «lingua personale», a differenza dell'inglese?

«La diversità viene dalle nostre lingue. Il polacco è poetico e un po' arcaico, non è così strutturato come il tedesco o l'inglese: quindi puoi dire le cose in molti modi, non ci sono obblighi di posizione nelle frasi, puoi esprimere le tue intenzioni in modi diversi. Non è un caso che due dei Nobel polacchi, Czeslaw Milosz e Wislawa Szymborska, fossero poeti».

Esiste una letteratura europea per lei?

«Direi di no. Per me la letteratura è una sola. Ed è una creatura viva, che negli ultimi vent'anni è cambiata molto: cerca nuove forme e strutture, nuovi modi di raccontare storie.

Questa è la sfida, oggi».

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