Cultura e Spettacoli

Quello strano rapporto tra la Regina e il servitore diventato suo maestro

In «Victoria & Abdul» il regista Frears racconta («Con richiami all'attualità») i chiaroscuri dell'epoca imperiale vittoriana

Quello strano rapporto tra la Regina e il servitore diventato suo maestro

Dal nostro inviato a Venezia

«My beautiful Laundrette è un film di trent'anni fa. Raccontava la storia di un amore omosessuale, nella Londra thatcheriana, fra il pakistano Omar e l'inglese Johnny. Quest'ultimo era interpretato da Daniel Day-Lewis. Ecco, mettete al posto di Daniel, Judi Dench e avrete Victoria & Abdul». Regista versatile, colto e ironico, Stephen Frears è a Venezia, fuori concorso con appunto lo strano rapporto fra la regina Vittoria e il suo giovane segretario e «maestro» Abdul Karim, nonché per ricevere il premio «Jaeger-Le Coultre Glory to the Filmmaker». Dieci anni fa, con The Queen, aveva portato sullo schermo la regina Elisabetta, ovvero come si mantiene una monarchia avendo perso un impero. Adesso è alle prese con l'epitome dell'impero stesso, nel momento cioè della sua massima espansione: «Dopo non ci sarà altro che la discesa e non vedo l'ora di godermi lo spettacolo», dice uno dei tanti sudditi indigeni angariati dalla supponenza e dal razzismo britannici.

Victoria & Abdul rientra in quel filone oltremanica della nostalgia di ciò che è stato e/o di ciò che si suppone sia stato. Da Downton Abbey in giù è ormai un'alluvione di butler, i camerieri, e di aristocratici, i gentlemen, di tenute immense, di sarti e di parties. Quanto di meschino, gretto e conformista ci fosse dietro, nessuno lo ricorda più, le umiliazioni e le miserie, lo sfruttamento e la cecità politica, sociale, intellettuale, semplicemente umana. Vince il racconto incantato di una sorta dell'età dell'oro, l'unico merchandising possibile per una nazione che della grandezza passata oggi può solo commercializzare il ricordo-rimpianto. Sotto questo aspetto, Victoria & Abdul è un'operazione più raffinata, nel senso che non nasconde la verità storica, pur se la riveste con i panni di una ricostruzione sontuosa. «Me lo hanno offerto, e io faccio il regista, giro film» dice sorridendo Stephen Frears. «Onestamente, di questo curioso feeling fra la donna allora più potente del mondo e il suo umile servitore musulmano non sapevo nulla. Però, certo, ci sono un sacco di elementi d'attualità, molti parallelismi con l'oggi. Ecco, a Donald Trump potrebbe tornare utile».

Chi sbuffa di fronte ai film in costume, chi si indigna se ogni due per tre non c'è uno stupro, un morto ammazzato, un effetto speciale, è meglio che non vada a vederlo. È la storia di un capriccio senile, di un amore un po' filiale e un po' rassicurante, dove la devozione può anche nascondere la furbizia, l'interesse, ma i piani sono troppo diversi perché si possa arrivare al plagio o alla truffa. Il giovane scrivano Abdul non è il Rasputin del fosco tramonto dello zarismo, eppure in quella Londra che colora la carta geografica del mondo con il rosa delle sue conquiste è proprio così che verrà visto, ulteriore prova della miopia della sua classe dirigente e dei suoi sudditi, incapaci di guardare di là dalla loro albagia. «Rispetto ai film sull'impero anglo-indiano - dice ancora Frears - la sceneggiatura che ho letto mi riportava di più all'atmosfera di Il ladro di Bagdad. Ho detto che l'avrei realizzato soltanto con Judi Dench e, con mia immensa fortuna, lei ha accettato».

Judi Dench è la regina, in tutti i sensi, della storia. «Penso che la chiave del mio personaggio sia nell'idea di potersi finalmente rilassare e insieme imparare qualcosa che la interessi. È schiacciata dall'età, dal peso, quello suo reale e quello metaforico della sua corona, dalla durata, quasi interminabile, del suo regno. E adesso c'è questo giovane, bello, gentile, entusiasta, che le insegna l'urdu, le cita i versi di Rumi, usa immagini poetiche. È la sua sovrana e insieme la sua padrona e la sua signora».

In Victoria & Abdul c'è l'Inghilterra al meglio del suo peggio. L'indiano Karim sarà scacciato dall'isola all'indomani della morte della regina.

Ancora quarant'anni e dall'India sarà l'impero a fare fagotto.

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