Cultura e Spettacoli

La vera arte è sempre profetica. Come Giotto

Il pittore racconta qualcosa che i suoi contemporanei non sanno ancora vedere

La vera arte è sempre profetica. Come Giotto

Io ho avuto un certo imbarazzo questa mattina, questa notte anzi, nell'immaginare quale potesse essere il percorso di un discorso su arte e profezia, perché possiamo contemporaneamente dire che tutta l'arte nella sua espressione più alta è profezia, e contemporaneamente che l'arte è espressione di una storia nella quale le immagini sono dei correlativi oggettivi della realtà vivente degli uomini: ed essi possono, per altro, non percepire l'avanzamento di conoscenza che l'arte indica.Quindi la situazione creativa, artistica e letteraria di un'epoca può essere molto più avanzata rispetto a quanto i cittadini percepiscono.

Quando Joyce scriveva l'Ulisse a Trieste, probabilmente il pensiero dei triestini era molto lontano dalla formidabile visione espressa in quel capolavoro complesso della letteratura del Novecento. Probabilmente i triestini erano anche più arretrati sul piano della loro visione e conoscenza della realtà di quanto non lo fosse, negli stessi anni, Italo Svevo, che era loro più vicino per cultura, consonanza, esistenza. E quindi, due presidi della letteratura italiana e inglese del Novecento sono presidi legati ad una dimensione visionaria non percepita, pure in tempi in cui la scolarizzazione era molto più avanzata, non quanto nel nostro tempo, visto che oggi dovremmo essere nel tempo reale, cioè, in un tempo in cui qualunque cittadino può essere sintonizzato con quello che l'arte indica o la letteratura propone. È forse la prima volta che la sensibilità comune può funzionare in parallelo con le forze creative.In tutta la storia le forze creative costituiscono una potentissima anticipazione e spesso una separazione sostanziale dalla sensibilità collettiva. Possiamo quindi dire che non so da dove sia uscito il genio di Cosmè Tura, ma per intuizioni come queste, così come per quelle di Ludovico Ariosto, la possibilità di comprensione o di immedesimazione doveva essere di una porzione inferiore all'uno per cento della popolazione, cioè del mondo contadino di Ferrara, il mondo dei sudditi degli Estensi, ossia il mondo delle persone che potevano essere state ai primi del Trecento ad ammirare la Cappella degli Scrovegni, che era privata, un numero di persone assolutamente ridicolo e tale da indicare la separazione sostanziale tra il concetto di universale e il concetto di popolare o di pop che riguarda il nostro tempo.

Partiamo in questa carrellata da un'opera universalmente nota che è, anzi, popolarmente nota: la Cappella degli Scrovegni di Giotto (1267 ca. -1337). Quando essa fu concepita per Enrico Scrovegni, figlio di un usuraio, che attraverso quella Cappella cercava in qualche modo di lavare le nequizie del padre, l'accesso alla cappella a Palazzo degli Scrovegni non poteva che essere limitato a una porzione molto ristretta di persone.

Certo, la leggenda di quel capolavoro, come un film di Spielberg, doveva essere arrivata molto più in là della fascia colta della società, ed è anche vero che probabilmente molti pittori arrivando da Firenze o scendendo dal Nord potevano entrare a Padova, non so da quale accesso, certo non pagando un biglietto o con questa specie di camera iperbarica che c'è ora.

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