Cultura e Spettacoli

In viaggio con Nooteboom alla scoperta del Giappone che l'Occidente non capisce

Lo scrittore olandese riflette su riti, miti e vita quotidiana del Sol Levante

In viaggio con Nooteboom alla scoperta del Giappone che l'Occidente non capisce

I primi a «occidentalizzare» il Giappone non furono gli statunitensi. Né quelli post Seconda Guerra mondiale, con ciò che ne seguì nel bene (poco) e nel male (tanto), né quelli che giunsero laggiù, l'8 luglio 1853, al seguito dell'ammiraglio Matthew Perry, a bordo delle loro «Navi Nere», così dette per il fumo che emanavano e per la minaccia che rappresentarono. E non furono nemmeno i commercianti e i missionari portoghesi del XVI secolo, la cui ingombrante presenza portò alla ferrea chiusura dell'arcipelago in una politica autarchica detta Sakoku, «paese incatenato», durante il feudale shogunato Tokugawa, con ciò che anche quella volta ne seguì soprattutto nel male, vedi i massacri subiti dai convertiti al cristianesimo.

No, i primi occidentali a conquistarsi la guardinga fiducia dei giapponesi furono gli olandesi, accolti di buon grado nel Settecento, per quanto confinati sull'isoletta di Deshima, nel porto di Nagasaki, sia in quanto protestanti e dunque ritenuti non insidiosi, dal punto di vista religioso, sia in quanto esportatori di beni e, ancor più, di conoscenze. Fu allora che esplose il rangaku («studio olandese»), un metodo di apprendimento scientifico che, appunto, originò l'interscambio culturale fra locali e stranieri. Ed è un legame, quello fra Olanda e Giappone, che da allora non si è mai allentato. Basti pensare ad esempio al «giapponismo» che nell'Ottocento, tramite le stampe giapponesi portate in Europa dalla Compagnia delle Indie, influenzò fra gli altri l'olandese Vincent van Gogh. O al fatto che un secolo dopo, nel 1992, è stata creata a Sasebo, nei pressi di Nagasaki, una piccola città in tutto e per tutto olandese, con chiese, musei, negozi, ristoranti e persino con la replica della residenza reale dell'Aia, la sontuosa «Huis ten Bosch».

E proprio all'Aia è nato, nel 1933, il più giapponese degli scrittori europei, Cees Nooteboom. Gran viaggiatore, ha fatto del Giappone la sua meta preferita fin dagli anni Settanta. È datato 1977 un breve saggio-diario che ora apre Cerchi infiniti, il volume che riunisce tutti i suoi resoconti di viaggio nel Paese del Sol Levante, l'ultimo dei quali avvenuto nel 2012 (Iperborea, pagg. 183, euro 15, traduzione di Laura Pignatti). «La prima settimana ho pensato di essere invisibile, nel senso che i giapponesi non permettono al corpo estraneo che io sono per strada, in metropolitana o in un ristorante di penetrare la forma più intima del loro sguardo», scrive. Proprio un gioco di sguardi è il suo rapporto con il Giappone, sguardi ammirati e sorpresi i suoi, sguardi che si perdono in altri orizzonti, più lontani, quelli nipponici. Sulla dialettica tra fascinazione e sensazione di estraneità Nooteboom costruirà, cinque anni dopo, il racconto Mokusei (edito nel '94 sempre da Iperborea), una storia d'amore impossibile tra un fotografo di Utrecht e una modella giapponese.

Di viaggio in viaggio, Nooteboom tenta di penetrare nell'anima giapponese, passando per la rituale visita alla residenza dell'imperatore nel giorno del suo compleanno, l'atmosfera mistica dei monasteri buddhisti, la perfetta asimmetria dei giardini, l'impenetrabilità della lingua, l'enigmatica bellezza delle ragazze, l'arte piena di sottintesi e di codici, la prosa miniaturistica di Kawabata, quella metallica di Mishima, quella avvolgente e regale di Murasaki Shikibu, l'autrice del primo romanzo della storia, Genji monogatari, e quella intimista, esistenzialista di Sei Shonagon, appoggiata sulle Note del guanciale (due opere, queste, composte tra la fine del X e l'inizio dell'XI secolo). E in ultima analisi pare lieto di non riuscirvi. Perché ciò che appare un fallimento, l'impossibilità di varcare la soglia che separa l'Occidente dall'Oriente più estremo, quell'ostacolo che nessun commerciante e nessun nemico in guerra, nei secoli dei secoli passati, ha mai neppure percepito, è la vera magia giapponese. «Mono no aware» la chiamano loro, e noi, impropriamente, crediamo di poter tradurre con «partecipazione emotiva».

Oppure, facendo appello ai padri greci, «pathos».

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