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Ai nostri figli serve la mamma. E non chiedono campionesse

Dalla Vezzali oggi in pedana ai mondiali alla Cainero col pancione ieri oro nel tiro. Lo sport agonistico è molto più esigente e rigido di un lavoro e i figli non sono tifosi

Ai nostri figli serve la mamma. E non chiedono campionesse

Ho smesso di fare la vita privilegiata di atleta a 25 anni, sono mamma da 23, i quattro anni mancanti ai miei 52 li ho passati godendomi la libertà di poter vivere alla giornata cercando di capire cosa mi sarebbe piaciuto fare da grande, scelta caduta sul lavoro di giornalista e soprattutto di mamma, che lavoro non è ma solo grande, infinito piacere di dar vita a esseri con cui crescere condividendo gioie, dolori e in ogni caso momenti irripetibili, giorno dopo giorno.

Ho sempre pensato che nella nostra breve vita ci sia un tempo per ogni cosa e che certi cicli vadano rispettati. Non capisco le persone che faticano e soffrono ad invecchiare rimpiangendo e cercando di rivivere il passato e non capisco nemmeno quelle che non riescono ad accettare serenamente il presente, con tutti i cambiamenti che comporta. Diventare mamma è un grande e bellissimo cambiamento, perché impoverirlo continuando a vivere come prima che un'altra vita nascesse dentro di noi? Per me sarebbe stato impensabile conciliare il ruolo di mamma con quello di atleta ad alto livello, confesso però di aver sciato fino al sesto mese di gravidanza (è forse così che mia figlia è diventata una forte sciatrice?) e di aver fatto anche altre attività non proprio consigliate sui manuali della mamma perfetta. Per molte donne, i nove mesi dell'attesa sono mesi di sofferenza fisica, per altre, e io ho avuto la fortuna di essere fra queste, sono invece mesi di grande vitalità, di salute e brillantezza, di euforia quasi.

Ma un conto è stare bene e fare vita normale, sport compreso, senza farsi condizionare dal pancione, un altro è farsi prendere dagli impegni inderogabili dell'agonismo, con relativi allenamenti, diete, stress fisici e mentali, non certo paragonabili a quelli di una persona normale. Ciò che è ancora più incredibile, dal mio punto di vista, è continuare a fare agonismo ad alto livello una volta diventate mamme, vedi casi Vezzali, Idem e Ceccarelli, solo per citare tre campionesse olimpiche. Per forza di cose queste super donne capaci di allattare e correre in palestra, non dormire la notte ed essere pronte al mattino a tornare in pedana, acqua o pista devono sacrificare qualcosa al figlio, non c'è santo che tenga e non regge nemmeno il discorso che in un rapporto conta di più la qualità della quantità, perché un bambino, almeno fino all'adolescenza, dalla sua mamma avrebbe bisogno di entrambe le cose. Vero, ci sono i papà, o i nonni, ma anche qui non ho dubbi: la mamma è la mamma e nessuno può sostituirla, almeno non sul lungo periodo. Dove li mettiamo gli imprevisti? Il più classico è quello del bimbo che si ammala e vuole proprio te, mamma, che se fai un lavoro normale puoi prenderti un giorno di riposo o rimandare gli impegni, ma se fai l'atleta non puoi certo chiedere di rinviare la gara per stare accanto a tuo figlio.

Non riesco a concepire lo sport se non come un gioco divertente dal quale, se va bene, si possono guadagnare fama e ricchezza; chi lo vive solo come lavoro e non riesce a smettere mai di essere competitivo (quindi per forza di cose un po' egoista) non sa cosa si perde.

Sono opinioni molto personali, ovviamente, ma un'atleta che diventa mamma dovrebbe soprattutto pensare a trasmettere la sua grande passione ai figli, facendogli vivere, più che il ruolo di tifosi di una mamma campionessa, quello di protagonisti seguiti con amore da una mamma competente.

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