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Balotelli, non è solo questione di pelle

Contro di lui mancanza di rispetto mascherata da razzismo. Pelé era nero, ma...

Balotelli, non è solo questione di pelle

Balotelli? È una battaglia persa. Parola di Steven Gerrard che se lo ritrovò a Liverpool. Balotelli è ingestibile, pensiero di José Mourinho che lo frequentò all'Inter. Dove sono le qualità di Balotelli, domanda di Jamie Carragher, ex nazionale inglese oggi commentatore televisivo. A seguire, però, molte coccole per Balotelli Mario, anzi superMario una proiezione in campo del videogioco, una scommessa, un rischio, una sfida. Balotelli torna a giocare ogni volta che mette piede in campo, con il club o con la nazionale. È un debuttante della vita, un esordiente del professionismo calcistico. Nessuno può discuterne talento e potenzialità, molti ne mettono in dubbio l'effettiva professionalità, il senso del sacrificio e dell'impegno che dovrebbe mettere da parte certe esibizioni lasche.

Balotelli è accompagnato da volgari buu strillati da una ciurma che pensa di demolirlo ma finisce per caricarlo. Non è razzismo ma ignoranza (sono poi la stessa cosa), è mancanza di rispetto. Balotelli non è l'unico calciatore al mondo di pelle nera, con lui in squadra altri ragazzi di colore nei confronti dei quali gli strilli non sono uguali. Basterebbe ricordare che il più grande calciatore della storia è stato Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelé che seppe imporsi in un tempo in cui il fenomeno del razzismo non era affatto latente. Pelé andò a concludere la sua carriera, a raccogliere dollari e a lanciare il soccer negli Stati Uniti, con i Cosmos di New York e il suo essere nero non significò affatto essere negro, perché la sua classe vinse qualunque ostacolo, favorita anche dall'appartenenza al regno del football mondiale, il Brasile. In un passaggio del libro Demoni, Balotelli ha confessato: «Fossi stato bianco avrei avuto meno problemi. È stato uno schifo...»; e ricordato le partite tra ragazzi: «Giochiamo?». «No, Mario: tu no. Sei nero». E in un'intervista a Sports Illustrated 5 anni fa, disse: «Il razzismo non si può cancellare. È come le sigarette: non puoi smettere di fumare se non lo vuoi. E non si può fermare il razzismo se la gente non lo vuole. Ma io farò qualunque cosa per riuscirci».

Basterebbe giocare bene al pallone, come Balotelli sa fare quando vuole, basterebbe onorare la maglia, del club e della nazionale, in silenzio, segnando qualche gol e partecipando alla festa successiva con la gioia spesso frenata chissà perché, questo spegnerebbe quei buu come si fa spegnendo nel portacenere il mozzicone di una sigaretta. L'Italia, la nazionale e il campionato intendo, sente ancora il bisogno di rivederlo in azione. A 27 anni non ci sono più rinvii, promesse e premesse. È arrivata l'ora, deve essere il rettilineo dopo troppe curve e tornanti. Deve decidere cosa fare da grande, il tempo delle mele è finito, è padre, ha responsabilità che prescindono dal procuratore e dai contratti.

Se poi, avrà ancora voglia di sfogarsi sui social contro qualche ex fiamma, contro il fratello Iwobi, colpevole di aderire alla Lega, contro chi non capisce di calcio, contro tutti e tutto, perché si considera più intelligente ma non ha bisogno di dimostrarlo (questa è una sua frase), allora non dovrà più esibire una maglietta sulla quale lui stesso ha scritto «Perché sempre io?». Perché la risposta è semplice.

Anzi elementare, Mario.

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