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Di Biagio e la rifondazione mancata

Poche facce nuove e soliti problemi: la modestia dell'Italia va oltre la sconfitta

Di Biagio e la rifondazione mancata

Le rivoluzioni portano morti e feriti. Le rifondazioni, per fortuna, si limitano a sconfitte, fischi e delusioni. Capita nel football, capita con la nazionale italiana alle prese con un passato che non ritorna e con un futuro non del tutto decifrabile. L'ultima esibizione contro l'Argentina B ha confermato il dato, la squadra ha passione ma questa non basta per crescere e battere gli avversari, la modestia tecnica accompagnata a una personalità latitante non lasciano speranze per una immediata riscossa. Di Biagio non è un uomo coraggioso, gioca da centrocampista anche da allenatore, non osa, non inventa e i suoi non lo aiutano nell'impresa.

Osservando le tabelle pubblicate si ritrovano fattori comuni negli anni anche se di recente il coraggio è stato messo da parte per fare posto al compromesso anche politico. Dopo i fatti di Belfast, nel '58, quando restammo fuori dal mondiale in Svezia, il torneo che lanciò Pelé, fu sempre Foni a tenere la barra ma inserendo sette calciatori, due recuperati, Boniperti e Firmani, e cinque debuttanti, Garzena, Petris, Moro, David ed Emoli ma non bastò per battere l'Austria che, anzi si impose e ripropose i problemi azzurri che si trascinarono, tra oriundi e roba indigena, fino al mondiale in Cile.

La Corea di Fabbri portò al ribaltone ma con molta demagogia, la squadra venne affidata a una improbabile coppia, Herrera-Valcareggi, il Mago durò lo spazio di un mattino, i due mischiarono le carte proponendo 7 esordienti, il blocchetto Inter, Sarti, Picchi, Burgnich, Domenghini ai quali si aggiunsero Juliano e De Paoli mentre Ottavio Bianchi fu l'esordiente assoluto. Riuscimmo a battere l'Unione Sovietica con un gol di Aristide Guarneri che riscattò la sconfitta, sempre con i sovietici per il gol di Cislenko. Erano i giorni della rivoluzione politica in federcalcio, stop agli stranieri, l'odontotecnico coreano Pak Do Ik aveva lasciato il segno. Due anni dopo sarebbe arrivato il titolo europeo, con la partecipazione di Italo Allodi.

Lo stesso Uccio Valcareggi pagò nel '74 la figuraccia mondiale contro la Polonia (sempre Allodi presente ma inutilmente) e fu Fuffo Brnardini, il dottore troppo intelligente e dunque scomodo a Vittorio Pozzo, a cambiare la faccia della nazionale: dentro tre ventenni, Antognoni, Rocca e Roggi, insieme con Caso, Re Cecconi quindi Prati e soprattutto fine della carriera azzurra di Riva-Rivera-Mazzola, dunque la storia messa in bacheca. Furono le premesse per la grande squadra di Bearzot al mondiale argentino e poi spagnolo.

Correndo verso gli anni più vicini ecco che il mondiale sudafricano segnò il tramonto di Lippi, la sconfitta in un girone modesto, l'uscita contro la Slovacchia portò al cambio e Prandelli provò a riverniciare la facciata con otto innesti e l'arrivo di Balotelli e Cassano che si presentarono buscandole dalla Costa d'Avorio, idem come sopra. Poi il grande scossone del mondiale in Brasile, Prandelli e Abete dimissionari, Cassano e Balotelli dietro la lavagna, castigati dai veterani (Buffon-Binucci-Chiellini-De Rossi), squadra nelle mani del salvatore della Patria, Antonio Conte, nuovo spirito, vittoria a Bari sull'Olanda, premessa di un buon europeo comunque finito ai rigori contro la Germania grazie alle stupidaggini di Pellé e Zaza.

Di Ventura meglio sarebbe non ricordare se non la vacanza a Zanzibar post Italia-Svezia. Ora Di Biagio ha raccolto una eredità che non è pesante ma drammatica, la sconfitta con l'Argentina era prevedibile ma la modestia dei nostri va oltre il risultato. Non c'è speranza nemmeno se dovesse appalesarsi Guardiola, per scherzo. Ma c'è poco da ridere e molto da pensare.

I numeri, le tabelle non ingannano, sono la fotografia della storia.

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