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Ciao Genio, sergente di ferro. Schemi, quaderni e pedalare

Bersellini amava la geometria, meno la diplomazia. Fu duro con Beccalossi, poi lo coccolò. E fu un trionfo

Ciao Genio, sergente di ferro. Schemi, quaderni e pedalare

«Geniooo!!» il grido risuonava nei silenzi di Appiano, che fosse sapor di tempesta o allegra compagnia. «Genioooo» era Bersellini Eugenio. Che lo chiamasse Giancarlo Beltrami, o lo richiamasse all'ordine il Mando che poi era Armando Onesti, l'alter ego, un po' preparatore atletico, un po' sarto, che strizzava i giocatori sul campo e poi pensava ad un taglio d'abito: «Quel Canuti non starebbe niente male con un principe di Galles...».

Dici Bersellini e pensi Inter, campione d'Italia, Altobelli e Beccalossi, quel gruppo che ha lasciato il segno. Lui, Genio, era il ruvido conducator, l'uomo che immetteva concetti nuovi nello spogliatoio senza che nessuno gridasse al miracolo, tuta o canottiera che indossasse, non nascondevano il vello del corpo. La chioma rossiccia del ragazzino ormai sparita aveva lasciato spazio ad una pelata che faceva palla lucida e rotonda: un'idea mussoliniana. Il sorriso trasmetteva l'immagine di una persona perbene, un uomo buono, finto burbero, persona mite lontana dai falsi bagliori del calcio.

Bersellini è morto a Prato, dopo aver cominciato la storia sua a Borgo Val di Taro, nell'Emilia dove l'occhio porta ai funghi e il palato sa goderseli. La sua vita sportiva è stata un giro d'Italia. La tappa milanese una scoperta per il mondo del pallone. La storia che incorniciò la carriera: chiamato all'Inter da Mazzola e Beltrami, capì subito in qual famiglia era arrivato tra le gaffe di Fraizzoli e la curiosità vanesia di Lady Renata. Per i giornalisti non era il massimo della loquacità, però in tempo di telefoni, e non di cellulari, rispondeva a chiunque solo nella prima mattina: dalle 7 alle 9, poi scompariva nei campi di allenamento e lo potevi ripescare alle 9 della sera. La telefonata nel primo mattino del lunedì era un must: cortese, sebben mai deflagrante. E quando gli dicevi qualcosa che approvava ma non poteva dire in prima persona , replicava: «Questo lo dice lei!».

Non c'era velo nelle parole di mister Eugenio, c'era molta tecnica come quella che applicava sul campo: gli piacevano gli schemi del basket che era stato un primo amore. Lavorò sulle diete, perché il Mando era anche appassionato di cucina. Disegnava schemi, prediligeva il rombo, e non riusciva a trarne godimento se non li vedeva ben applicati. Nel giorno dello scudetto, dopo il gol di Mozzini che consegnava all'Inter il tricolore, commentò così: «Sono perfezionista e incontentabile. Mi spiace aver visto che, in questo anno, tante cose provate in allenamento non sono state applicate sul campo. Abbiamo vinto lo scudetto, ma eravamo molto meglio l'anno scorso, quando solo l'inesperienza finiva per fregarci». Segnava tutto su quadernoni che oggi sarebbero rimpiazzati dal computer. La sua filosofia era racchiusa in una frase che pareva semplicistica: «Palla a noi giochiamo noi, palla a loro giocano loro».

Bersellini fu duro con Beccalossi, che aveva il vizio di non abbandonare mai la sigaretta, ma poi se lo coccolò. I ragazzi dell'Inter hanno cominciato a conoscere la sua fama di duro, un cosiddetto sergente di ferro, per capirne i benefici influssi nel resto della carriera. L'Inter campione dell'80 diceva più o meno così: Bordon, Baresi, Oriali, Pasinato, Mozzini, Bini, Caso, Marini, Altobelli, Beccalossi, Muraro. Quindici giocatori in tutto (c'erano pure Canuti, Pancheri e Ambu) e l'anno dopo, quando Bersellini chiese qualche rinforzo, per la coppa Campioni finì come te la raccontava lui: «Gli altri compravano campioni, a me presero Prohaska...».

Vinse scudetto, e due coppe Italia, girò l'Italia prima e dopo: Lecce, Como, Cesena, Sampdoria, Torino (era un tipico cuore granata), Ascoli, Bologna, Avellino. Proprio a Milano, contro l'Inter, si giocò la retrocessione della squadra irpina. L'ultima volta dell'Avellino in serie A: «Sono accadute cose incredibili in questo finale di campionato e chi vuole capire capisca». Mai sguaiato nel parlare, ma deciso sull'obbiettivo. Fu anche ct della nazionale libica, chiuse la carriera nel Tigullio: dapprima allenatore della Lavagnese, poi direttore sportivo a Sestri Levante. Forse dimenticato dal grande mondo del calcio.

Sempre rimpianto dal piccolo mondo antico del pallone.

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