Giro d'Italia

Evans corre da isolato ma nella crono dei vini vuole bersi gli scalatori

Giro d'Italia / L'australiano nel mirino del gruppo per l'atteggiamento in corsa. Oggi deve guadagnare il più possibile su Uran e Quintana

L'australiano Cadel Evans
L'australiano Cadel Evans

Nostro inviato a Savona

Così no, mister Evans. Niente da dire, anzi bravo, per la decisione di tirare dritto a Montecassino, mentre gli altri facevano catasta alla famigerata rotonda. Stavolta però molto meno bravo, anzi pessimo, per come interpreta il ribaltamento dei ruoli: caduto il suo fedelissimo Morabito in una delle duemila cadute di giornata, stavolta la maglia rosa va a pretendere che in testa al gruppo gli uomini dell'Androni si fermino ad aspettare. Mister Evans, faccia il bravo: va bene essere il leadr della corsa, ma non può pretendere di essere il duce. Come ha tirato (giustamente) dritto lei a Montecassino, così hanno diritto i ragazzi della squadra italiana di farsi la propria corsa (tra l'altro, rallentano comunque un poco in attesa di sapere che non sia un sinistro spaventoso).

Dovrebbe essere molto chiaro a tutti: il fair-play non è elastico, non è arbitrario, non è personalizzato. E' uno. Non è come l'impermeabile di primavera, che si mette e si toglie in base alle lune del tempo. Dunque: se Evans è convinto di aver fatto bene il proprio dovere tirando dritto a Montecassino, neanche deve provarci a imporre i comodi suoi ad altre squadre. Tanto meno a una squadra piccola che cerca disperatamente di ritagliarsi un proprio spazio e un proprio posto al Giro.

Sorry, mister Cadel: stavolta la stiamo un po' facendo fuori dal vaso. Anche la sua spiegazione: è rispettabile, ma non convincente. Sentiamola: «Un conto è la caduta a 80 chilometri dalla fine: quando possiamo, dobbiamo avere un lato umano e aspettare chi cade. Diverso a Cassino: lì era il finale, noi abbiamo il dovere di fare la corsa, siamo giudicati per i risultati, in quel caso solo gli organizzatori possono fermarci…».
Comunque la si giri, se lo lasci dire: non è che i risultati siano poi così brillanti, dal suo punto di vista. Il risultato vero è che aumentano di giorno in giorno i nemici. O diminuiscono gli amici. Già non erano moltissimi, adesso siamo al minimo sindacale: difendere la maglia rosa da qui a Trieste sarà già molto arduo di suo, certo sarà ancora più arduo grazie a questa squinternata politica estera. Dovrà farlo praticamente da solo. Dovrà guardarsi da tutto e da tutti. Dovrà aspettarsi dispetti e imboscate a tutte le ore. Non sarà un bel vivere.

Diciamolo: a metà Giro, non gli resta che l'Australia. La sua Australia. Fino all'altro giorno aveva flirtato con la squadra del giovane Matthews, a Savona lancia un ramo d'ulivo all'altro compatriota Rogers, evitando di inseguirlo quando questi si butta a tutta in discesa e arriva da solo al traguardo. Tu chiamalo, se vuoi, fair-play. Un pelino interessato. Hai visto mai che più avanti Rogers e la sua squadra non si mettano troppo di traverso, nonostante abbiano il giovane polacco Majka sulla rampa di lancio?

Quando in un Giro si comincia a parlare di arsenico e vecchi merletti, significa comunque che sta cominciando per davvero. Tutte le simpatiche chiacchiere e i melensi salamelecchi dell'inizio si sono persi per strada. Il gioco si fa duro e i duri cominciano a giocare. Oggi, l'inizio vero. Sono 42 pesantissimi chilometri a cronometro tra Barbaresco e Barolo: non facili, non proprio per specialisti, ma certo per Evans. Già in vantaggio, il leader ha una missione molto chiara: «Qualunque secondo guadagnato su chiunque sarà preziosissimo». Tra i rivali, vede bene Uran. Finora non ha visto Quintana, dice, ma crede che lo capiremo fino in fondo solo alla fine della crono. A questo serve la giornata del vino buono: come dicono i vecchi diesse, «a dividere i maschi dalle femmine». A capire chi può andare sulle Alpi con serie ambizioni e chi invece deve lasciare già tutto in pianura. Nessuno vincerà il Giro a Barolo. Troppo presto.

Ma certo per qualcuno sarà già troppo tardi.

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