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Queen's, l'orgoglio british dell'ante-Wimbledon

Il club fu voluto dalla famiglia reale, William e Kate ne sono soci. Glamour, stile e minimalismo. E la vittoria va al britannico Murray

Queen's, l'orgoglio british dell'ante-Wimbledon

nostro inviato a Londra

L'ante-Wimbledon più che l'anti-Wimbledon. Perché nessuno te lo dice, al Queen's, che questo torneo voglia diventare l'alternativa. Arriva prima e ciò basta. Arriva prima e per questo per molto tempo era considerato solo un passaggio obbligatorio, un allenamento in vista dei Championship. I giocatori arrivavano a Londra e giocavano qui nel club della regina Vittoria per abituarsi all'erba e al clima.

È finita quell'era. Il Queen's è cresciuto, resta una tappa fondamentale nel cammino verso Wimbledon, ma non più solo quello. È un torneo diverso, per certi versi sì opposto al Grande Slam più importante, perché lì c'è la grandezza geografico-architettonica-epica, qui c'è l'orgoglio dell' understatement : il Queen's club è nascosto tra le case di West Kensington, vive con la città e non oltre la città. Se non ci fosse il torneo non ti accorgeresti neanche dei 12 campi in erba e di tutte le sue altre strutture. Un club, appunto. Idealmente e letteralmente. Londra si ritrova con la sua ricchezza e con la sua ostentazione al contrario: non facciamolo vedere. È il torneo di un pezzo della famiglia reale, se è vero che questo club fu voluto dalla Regina Vittoria nella seconda metà dell'Ottocento e se oggi i due soci più importanti sono il principe William e sua moglie Kate, duchessa di Cornovaglia. A pensarlo e costruirlo fu William Marshall, finalista (sconfitto) del primo Wimbledon della storia, nel 1877.

Un orgoglio molto british, alimentato anche dal vincitore di ieri, Andy Murray che s'è preso il torneo per la quarta volta. Un'orgoglio molto londoners , anche. Lo si vede dai fiumi di Pimm's che scorrono durante il torneo e dallo standing dei suoi ospiti: attori, calciatori, manager della City . Una straordinaria normalità, perché qui nessuno chiede l'autografo a nessuno, neanche ai giocatori. Quando qualcuno parla del minimal londinese evidentemente pensa a questo posto. Lo fa lo stilista Jeremy Hackett che con la sua azienda sponsorizza il torneo da due anni, veste giudici di linea, giudici di sedia e raccattapalle (tutte ragazze della St. Philomena's Catholic High School o della Nonsuch High School): «Io sono cresciuto qui e questo è il torneo che mi rappresenta, così come credo che rappresenti Londra, come pochi altri eventi sportivi. Sponsorizzarlo è un'onore, ma è anche perfettamente coerente con l'idea della mia azienda e delle mie collezioni».

L'atteggiamento delle persone, l'approccio del club. Soprattutto il rapporto tra lo sport e lo stile: «Il tennis è un grande sport. Signorile, austero, elegante, ma anche molto drammatico. Qui, si vivono tutte le emozioni come andrebbero vissute. È un luogo fantastico e c'è meno pressione che altrove». Non si cita mai Wimbledon, per discrezione, per eleganza e per consapevolezza: il Queen's non arriverà mai all'importanza mitologica dei Championship. Fa un'altra partita, fa un'altra storia. Molto sua. Per esempio: questo è stato il primo club al mondo a essere multidisciplina. Su questi campi si sono svolte gare di 25 discipline diverse: s'è giocato a rugby, s'è pattinato sul ghiaccio, ci sono state partite di calcio e persino di baseball. Per una ventina di anni, dopo il 1920, qui si sono svolti tutti i confronti Cambridge-Oxford, ovvero di una delle rivalità sportive (e non solo) più antiche e meravigliose del mondo. Il tennis alla fine se l'è tenuto tutto per sé. «Londra gli è cresciuta attorno, gli altri sport anche, il club è rimasto tennis centrico ed è un bene. Sono perfetti l'uno per l'altro», dice Hackett. L'erba è uno stile, non solo di gioco. Il Queen's è un palcoscenico.

Il torneo è una vetrina.

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