Letteratura

Esoterismo e ritmo. La poesia magica di "Momo" Comi dal sogno parigino alla terra del Salento

A cosa serve un poeta? È una domanda che non si fanno neanche i poeti stessi a volte e raramente i lettori di poesia

Esoterismo e ritmo. La poesia magica di "Momo" Comi dal sogno parigino alla terra del Salento

A cosa serve un poeta? È una domanda che non si fanno neanche i poeti stessi a volte e raramente i lettori di poesia. In maniera brutale, mi sono chiesto perché soltanto pochi sanno andare a capo, sanno mettere le parole nella sequenza giusta che ci permette di commuoverci, di arrabbiarci, di appiccicarle dentro la memoria per potercele ripetere simili a mantra o preghiere.

La poesia rappresenta una forma d'arte che dà un ritmo ai pensieri sublimi del mondo. È una delle tante definizioni che assomiglia all'essenza poetica delle cose. Dove c'è un ritmo armonico, un ritmo che scorre come l'acqua d'un fiume all'interno del suo letto, c'è un senso segreto della poesia. Il poeta dunque è colui che trova e celebra quel ritmo, colui che lo sa decifrare. Ciò che sto descrivendo è una meditazione nata dalle letture e dagli insegnamenti di un autore di nome Girolamo, detto anche Momo, Comi. Nato nel 1890 a Casamasella nei pressi di Otranto e morto nel 1968 a Lucugnano, frazione del comune di Tricase, sempre profondo Salento. È stato uno dei poeti più affascinanti con cui ho avuto a che fare nella mia vita di lettore, anche se per lunghi anni ho lottato con la lettura dei suoi testi perché sono tra i più complicati e misteriosi. Girolamo Comi infatti cattura i lettori che lo studiano, non quelli che lo leggono, perché è autore di versi oscuri, che nelle raccolte più dense e riuscite, quelle del suo periodo adulto, fanno riferimento alle sue fascinazioni per l'antroposofia di Rudolph Steiner, ma anche ad alcuni suoi studi esoterici. Inoltre le sue frequentazioni giovanili con i maestri del simbolismo francese emergono in diverse parti della sua opera, anche quando da adulto se n'era allontanato. Tutto questo, nell'Italia novecentesca dell'ermetismo o della poesia civile, era quanto meno esotico.

Girolamo Comi, nonostante i natali salentini, nonostante il sangue blu e il titolo di Barone che sembra farlo appartenere radicalmente alla terra da cui viene, è invece figlio di una famiglia cosmopolita, parenti sparsi per il mondo, uno zio a New York, altri nell'allora impero austroungarico. Sua madre Costanza De Viti De Marco, sorella del noto economista, lo spinge a lasciare la Puglia dove non aveva ottenuto grandi risultati scolastici (pessimo studente dei licei di Maglie e poi di Lecce). Da ragazzo si era distinto in bravate, scherzi e scorribande. Uno di quei tipi che qui chiamano fore de capu.

Dopo i vent'anni vivrà la Parigi della Belle Époque, un periodo ricco di conoscenze, scambi, letture. Frequenta i cenacoli letterari più rispettabili, diviene amico di Émile Verhaeren, Paul Valery, Paul Claudel. Studia i poeti francesi e si lascia avvincere completamente dal simbolismo. Perde il suo tratto frivolo e comincia a coltivare il suo talento e i suoi studi. È il momento migliore della sua vita, esordisce con Il Lampadario pubblicato dal libraio Edwin Frankfurter di Losanna. Pur essendo un libro che negli anni successivi Momo rinnegherà in molte sue parti, incuriosisce la società letteraria parigina. Ricciotto Canudo, pioniere dell'estetica cinematografica, originario anch'egli della Puglia, raffinata penna del Mercure de France, lo promuove con una recensione lusinghiera che lo lancia tra gli scrittori stranieri che vivono quegli anni la città transalpina. Anni dopo seguirà le sue tracce, con meno fortuna, Raffaele Carrieri, che vivrà una Parigi più dura, fatta di teatri abbandonati, di avanzi di cibo, di cicche fumate nelle botole dei bar malfamati, di una bohème senza riscatto della gloria letteraria. Invece la Parigi di Comi, un decennio prima, è un sogno di zucchero. Promosso da Ricciotto Canudo e da Paul Valery, gli pare di aver raggiunto un'accettabile dimensione per cominciare la sua carriera letteraria. Ma lo scoppio della prima guerra mondiale e la successiva chiamata alle armi lo allontanano da Parigi e dalle sue ambizioni cosmopolite.

Dal 1918 al 1946 Girolamo Comi vive a Roma, con alti e bassi, in certi momenti sembra inserito in un contesto di autori religiosi, oppure devoti all'orfismo, in altri indossa le vesti di appartato, pubblica in raffinate autoedizioni rifuggendo la società letteraria (oppure ne resta ai margini perché non accolto con la benevolenza dei poeti più grandi e celebri come avvenne a Parigi). Eppure le sue autoedizioni vengono apprezzate da amatori e letterati, alcune di esse diventano piccoli libri di culto poiché introvabili come la plaquette Smeraldi tirata nella bellezza di 7 copie.

Il periodo romano però è contraddistinto anche dalla vicinanza ad alcuni intellettuali come Ernesto Bonaiuti e Raffaele Prati. Comi si avvicina anche a Julius Evola e scrive per La Torre, poi attraversa una profonda crisi spirituale che lo conduce nel 1933 alla conversione al cattolicesimo. Questa fa seguito agli incontri con il gesuita André de Bavier, e le letture e gli insegnamenti dei «maestri» san Paolo, san Tommaso, Dante e Pascal. Girolamo Comi scrive in una lettera, che non si può essere poeti se non si conoscono questi quattro illuminati.

Momo Comi passa alla storia però per quello che fa nella sua terza età. Dopo la guerra torna in Salento e vive a Lucugnano in una casa che oggi è diventata casa museo, ed ancora custodisce i suoi libri, e qualche fantasma amico. Visitarla è un'esperienza molto intensa, che consiglio di fare quando il sole tramonta, perché le stanze paiono assumere un'ombra azzurra e i dorsi rilegati con carta pregiata dei libri (quasi tutti in francese) sembrano brillare di uno smerigliante bagliore minerale.

Nel borgo salentino, piccolo centro agricolo, persuaso dai mezzogiorni nerissimi delle estati pugliesi e sferzato dagli inverni d'argento e maestrale, il nostro poeta si imbarca in numerose avventure. Anela forse riprodurre nella piccola frazione di Tricase, a cinquanta chilometri da Lecce e venti dai due mari, uno di quei rispettabili cenacoli letterari che aveva frequentato da ragazzo a Parigi. Fonda un'accademia, una rivista letteraria, una piccola casa editrice. In tutto questo c'è anche la gestione dell'oleificio, che dovrebbe drenare le risorse per tenere su la sua società letteraria. Se l'impresa finanziaria va a rotoli, quella letteraria invece diventa un punto fermo di tutto il territorio, ma anche un curioso esperimento che affascina i letterati del nord. Gli stessi contadini e gli stessi politici locali, gli stessi creditori, quando Comi perderà tutto, accettano l'inaccettabile e lo aiuteranno a vivere, permettendogli di continuare a stare in quella casa, perché ne avevano percepito l'importanza. Fior di poeti e pittori prendono treni da Firenze, Roma e Milano per partecipare alle residenze letterarie ante litteram che organizzava Momo.

Maria Corti sarà la segretaria di redazione de L'Albero, la rivista che negli anni pubblicherà numerosi contributi di alcuni dei più importanti letterati italiani, da Alfonso Gatto a Vittorio Bodini, da Carlo Betocchi ad Arturo Onofri sino a una giovane promessa come Rina Durante. Il sogno di Momo è tenere assieme letterati, scrittori e artisti di tutte le estrazioni sociali e politiche, comunisti e cattolici, poeti civili, ermetici ed esoterici. Proprio l'esoterismo è uno dei tratti ancora oggi da scoprire della poesia di Comi e che lo rende, nonostante i recenti studi e la nuova pubblicazione delle sue opere di Musicaos edizioni, un autore inclassificabile, e di difficile interpretazione. Eppure nulla di più lontano dal buio sono le sue opere, descrivono costantemente la luce, vedi per esempio su questo la poesia del Cantico del Tempo e del Seme: «Il cielo ha una veemenza così netta/ di luce inesauribile che spossa/ ogni potenza pure se perfetta/ fino a fiaccarne la figura e l'ossa». E procedendo casualmente, l'ossessione per dar ritmo e forma alla luce, continua: «L'alito primo d'una luce sacra/ in me rifulge come se oggi fosse/ il primo grido, la prima giornata/ della creazione che ho dentro le ossa/ e se la carne cade ed è malata/ nel mio spirito ondeggiano le forme/ d'una fiamma che m'è stata donata/ da un cielo acceso».

Momo nel suo periodo romano frequentò molti circoli orfici ed esoterici, la sua nota vicinanza alle posizioni steineriane fu spesso messa in discussione anche da lui, ma l'imprinting di un'idea cosmo-spirituale rimane nelle sue poesie. Da lettore ne riscontro una in particolare, forse una delle più conturbanti perché coglie il senso di alcuni deja vu che viviamo, nonché le letture più impegnative sulla metempsicosi. Leggendo la lirica Destino si può rinvenire un processo che somiglia al meccanismo dell'incarnazione delle anime. «Satura d'una grazia solitaria / è la memoria di ogni carne / nessuna morte potrà mai disfarne / la persuasione originaria // ogni corpo, benché ospiti un dramma, / sa le sue forze e il suo destino/ come se l'ansia d'un insonne fiamma/ ne sussidiasse il sacro ritmo».

La parola «ritmo» è forse una delle chiavi per capire cosa c'è dietro la scrittura di Comi, e la poesia è strumento per decifrare le cose indecifrabili, ma senza descriverle, soltanto dando loro un ordine.

Momo Comi è ancora un mistero, per alcuni un poeta troppo antico, troppo legato al concetto di simbolismo e dotato di una spiritualità mai del tutto chiarita, eppure l'energia della sua vita, le sue idee apparentemente fuori dal tempo, ma in realtà dentro la terra che viveva, ancora oggi sembrano sopravvivere. Quando dieci anni fa con la libreria Idrusa di Alessano e altri volontari capuani abbiamo organizzato la prima edizione di un festival letterario nella zona del Capo di Leuca, a due passi da casa Comi, lo abbiamo chiamato Armonia in suo onore, ispirati dalla lirica più famosa che si chiama Spirito d'Armonia, dove si parla proprio del rapporto tra interiorità ed esteriorità. Non può esserci equilibrio se questi due mondi non si collegano tra loro.

La poesia diviene dunque un gesto magico, a qualcuno potrà sembrar strano, addirittura un atto di stregoneria, e forse era ciò che ha imparato a fare il poeta barone di Lucugnano.

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