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La "storica svolta" sui gay? È un’ossessione americana

Omosessuali nelle forze armate. Tra i Paesi occidentali, solo negli Usa la questione viene vissuta con tanta drammaticità: basterebbe smetterla

La "storica svolta" sui gay? 
È un’ossessione americana

La fine del bando (parziale) ai gay nelle forze armate statunitensi? È la solita vicenda all'insegna del politicamente corretto tanto cara ai democratici statunitensi, ma di certo non è affatto «una decisione storica», come la ha enfaticamente definita il presidente Barack Obama, dopo che la cancellazione della vigente legislazione di compromesso è stata approvata prima dalla Camera e poi dal Senato statunitensi. Non ha alcun senso paragonarla con la fine della discriminazione all'accesso alle forze armate nei confronti degli afro-americani o delle donne.
Già, perché in questo caso gli Usa erano davvero retrogradi. Nella maggior dei principali Paesi il problema è già stato superato, è questo ad esempio il caso di quasi tutti i membri della Nato, con la cospicua eccezione rappresentata dalla Turchia, oppure di tutti i Paesi della Unione Europea. Per quanto riguarda l'Italia, un tempo l'omosessualità dichiarata equivaleva ad una forma di malattia psichiatrica che portava alla esclusione dal servizio militare ed infatti affermare l'omosessualità era un tipico escamotage utilizzato da chi voleva cercare di sfuggire agli obblighi di leva. Oggi non c'è alcuna preclusione.
Anche in Russia i gay possono servire in uniforme, anche se solo dal 2003. Fino al 1999 l'accesso era negato, dopodiché si è ammessa la possibilità, ma solo in caso di guerra, fino ad arrivare alla liberalizzazione.
Porte aperte a gay e lesbiche nelle forze armate di Taiwan, Australia, Nuova Zelanda, Israele, di diversi Paesi sudamericani, come Argentina o Colombia.
Non sorprende invece se il divieto resiste in quasi tutti i Paesi islamici e in diversi Paesi africani o asiatici, anche se poi occorre distinguere tra la normativa teoricamente prevista e la prassi.
Questa ipocrisia è proprio ciò che il Congresso statunitense ha appena abbattuto. Fino al 1993 infatti l'omosessualità era causa ostativa all'arruolamento nelle forze armate, in quell'anno venne introdotta dal presidente Clinton la famigerata formula «don't ask, don't tell», che in pratica consentiva a gay e lesbiche di arruolarsi, purché non facessero outing. In molti hanno accettato il compromesso, altri, oltre 14mila uomini e donne nell'arco di 17 anni, hanno scelto di dichiarare i propri orientamenti o hanno rinunciato alla discrezione e sono stati quindi espulsi.
Una volta che la nuova disciplina andrà a regime (e ci vorranno comunque diversi mesi e una certa gradualità) l'outing sarà permesso e chi è stato allontanato a causa delle sue preferenze sessuali avrà la possibilità di ri-arruolarsi. Ma se sul piano giuridico e formale la questione è risolta, su quello sostanziale le cose sono diverse. Le ricerche e gli studi condotti dal Pentagono confermano che in qualche caso e in qualche "comunità" l'accesso di omosessuali dichiarati potrà causare problemi alla "coesione dei reparti" e anche alla disponibilità al ri-arruolamento al termine della ferma. Ad essere nettamente contrari sono, ad esempio, i Marines, come ha spiegato senza troppi giri di parole il loro comandante, il Generale James Amos.
È proprio così, in alcuni ambienti, piaccia o meno, non importa nulla della reale natura del legame tra Achille e Patroclo, il mito del "guerriero" dai gusti "regolari" è molto radicato. Un po' come accade in tantissimi settori dello sport professionistico. Si tratta di cliché e preconcetti che potranno essere gradualmente superati, con una appropriata azione di comando e formazione. Ma non si può negare che prima che ci si arrivi incidenti e problemi si verificheranno. Anche con le conseguenze "letali" paventate dai Marines.

Con buona pace di Obama.

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