Arte

Sud, stranieri e queer: una Biennale "di bandiera"

Il brasiliano Adriano Pedrosa anticipa come sarà la prossima Esposizione. Che si annuncia ideologica

Sud, stranieri e queer: una Biennale "di bandiera"

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«Il fulcro della mia mostra sarà l'artista queer». Nella breve conferenza stampa di presentazione della sessantesima Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia (20 aprile-24 novembre 2024), il curatore Adriano Pedrosa è stato precisamente lapidario. In qualche modo, è parso perfino scontato il richiamo alla cultura Lgbtq+ a cui si lega l'aggettivo queer (a indicare coloro che non sono eterosessuali e/o non sono cisgender) essendo che nei giorni scorsi le voci del corridoio curatoriale davano per certo il tema. Quindi nessuna sorpresa. L'artista fulcro non dovrà però essere solo e semplicemente queer, bensì outsider, meglio se autodidatta, ancora meglio se folk o indigeno, in ogni caso straniero: il massimo, ci è sembrato di capire, sarebbe trovare un artista fulcro che si attagli perfettamente a tutte le categorie qualificanti espresse. Resteremo dunque in trepida attesa della scelta dei nomi, almeno un centinaio tra i viventi, che saranno annunciati il prossimo febbraio. C'è da dire che molte Biennali del passato, anche l'ultima della curatrice Cecilia Alemanni, si sono rivelate meno peggio delle loro presentazioni in cui la retorica ex ante della parola scritta prevale sul successivo dato visivo ed espositivo.

Il titolo scelto dal brasiliano Pedrosa, direttore del Masp, il museo di San Paolo, e influente curator del Sud del mondo, Sud che il presidente della Biennale Roberto Cicutto evoca come fil rouge del proprio mandato, è comunque denso di suggestioni: Stranieri Ovunque Foreigners Everywhere da un lato infatti rimanda, banalmente, alla questione geografica, e dal punto di vista della cronaca, immediatamente, a recenti fatti globali, crisi, guerre, migrazioni; dall'altro, si carica di aspettative filosofiche, quasi ontologiche, basti pensare alla riflessioni che hanno segnato il Novecento, a partire da quelle di Martin Heidegger sulla gettatezza dell'uomo nel mondo, sul dispatrio esistenziale che è la condizione prima e ineludibile dell'essere umano, e dunque dell'artista il cui compito è di riappropriarsi di quel territorio che è casa.

Non sappiamo quanto Heidegger ci sia in Pedrosa quando scrive che «a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri», viceversa capiamo subito il substrato politico e artivista, cioè di un'arte condizionata dall'impegno sociale prima ancora che estetico, a cui tende la sua riflessione quando sottolinea come il contesto in cui si colloca l'opera è «un mondo pieno di crisi multiformi che riguardano il movimento e l'esistenza delle persone all'interno di Paesi, nazioni, territori e confini e che riflettono i rischi e le insidie che si celano all'interno della lingua, delle sue possibili traduzioni e della nazionalità, esprimendo differenze e disparità condizionate dall'identità, dalla cittadinanza, dalla razza, dal genere, dalla sessualità, dalla libertà e dalla ricchezza». Un'opera che pedrosanamente esisterebbe solo in un confronto dialettico con la società e le sue contraddizioni e mai come opera in sé, mai come possibilità di bellezza e senso autonoma.

D'altronde il titolo è tratto da una serie di lavori realizzati a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine, nato a Parigi e con sede a Palermo, sculture al neon di vari colori che riportano in diverse lingue la frase «Stranieri Ovunque», espressione a sua volta ripresa dal nome di un omonimo collettivo torinese che nei primi anni Duemila combatteva il razzismo e la xenofobia. Ecco dunque spiegato «l'artista queer, che si muove all'interno di diverse sessualità e generi ed è spesso perseguitato o messo al bando; l'artista outsider, che si trova ai margini del mondo dell'arte, proprio come l'autodidatta o il cosiddetto artista folk; e l'artista indigeno, spesso trattato come uno straniero nella propria terra». Infine, termine caro anche a Lesley Lokko, la cui Biennale di architettura è in corso, è l'artista «diasporico»: una sezione speciale del Nucleo Storico sarà, infatti, dedicata alla diaspora degli artisti italiani nel mondo nel corso del XX secolo. A quegli italiani, cioè, che si sono trasferiti all'estero costruendo le loro vite e carriere professionali in Africa, Asia, America Latina, così come nel resto d'Europa, integrandosi e radicandosi con le culture locali che spesso hanno svolto un ruolo significativo nello sviluppo delle narrazioni del Modernismo al di fuori dei nostri confini.

Più in generale, Pedrosa cercherà di mettere in discussione i confini e le definizioni del Modernismo, ovviamente bollate come occidentecentriche, esponendo opere provenienti dall'America Latina, dall'Africa, dall'Asia e dal mondo arabo.

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