Cronache

Sulla cannabis per i malati c'è la legge del "fai-da-te"

Lo Stato non interviene e in 11 Regioni ci sono regole diverse sull'uso terapeutico della marijuana. Ora antiproibizionisti e ultrà di sinistra tentano il blitz: sdoganare la droga non soltanto per i pazienti

Sulla cannabis per i malati c'è la legge del "fai-da-te"

Libera canna in libero Stato. Anzi, in libera Regione. È il federalismo della marijuana. Puglia, Toscana, Veneto, Liguria, Marche, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Sicilia, Umbria, Basilicata ed Emilia Romagna - in ordine d'arrivo -: undici Regioni si sono disegnate una legge su misura sull'uso terapeutico della cannabis, mentre lo Stato è rimasto a guardare o quasi. Dietro il sacrosanto diritto dei malati alla cura, incombe l'anarchia dello spinello. Con il rischio che passi dalla finestra ciò che non è ancora entrato dalla porta principale, ovvero una legalizzazione tout court delle droghe leggere. E a temere questa deriva non sono certo soltanto i soliti «oscurantisti».

Paese spaccato

L'uso terapeutico della marijuana, o meglio del principio attivo del Thc, in Italia è legittimo dal 2007 (al ministero della Salute c'era Livia Turco). Un anno fa il governo Renzi ha deciso di non impugnare dinanzi alla Corte costituzionale la legge regionale dell'Abruzzo, come invece aveva fatto l'esecutivo Monti contro le inziative in Veneto e Liguria (ricorsi poi respinti dalla Consulta). Il cambio di rotta è lampante. Nella legislazione nazionale resta in piedi un'unica clausola: i cannabinoidi possono essere prescritti solo «quando altri farmaci disponibili si siano dimostrati inefficaci o inadeguati al bisogno terapeutico del paziente». Per il resto, si lasciano agli enti locali ampi spazi di manovra.

In Toscana il Consiglio regionale è tornato a occuparsi della materia il mese scorso. D'ora in poi i medici di famiglia potranno prescrivere farmaci a base di cannabis, dietro preciso piano medico o visita dello specialista. I costi? A carico del Servizio sanitario regionale. Sono previste consegne al domicilio dei pazienti e convenzioni con centri e istituti autorizzati «alla produzione o alla preparazione dei medicinali». L'Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze ha ricevuto il via libera dal governo a settembre. Qui le serre si stanno scaldando ed entro il 2015 arriveranno i frutti del primo raccolto «di Stato». Si punta a cento chili di cannabis all'anno, per centomila pazienti potenziali in tutta Italia. Anche se il mondo delle onlus prefigura un bacino di addirittura dieci milioni di interessati, perché - sostengono - la marijuana «può essere utilizzata per tantissime patologie, compresi lo stress e la depressione, e anche per i comuni dolori mestruali».

In realtà oggi possono (potrebbero) curarsi con la cannabis pazienti affetti da patologie gravi tra cui sclerosi multipla, Sla, Parkinson, e pazienti terminali di cancro o Aids. Un trattamento palliativo per il controllo del dolore che, stando ai numeri diffusi dal dicastero di Beatrice Lorenzin, ha riguardato nel 2013 soltanto una sessantina di persone. Ottenere i medicinali è una corsa a ostacoli tra lungaggini burocratiche e costi spesso insostenibili, dato che prima dell'ok all'istituto fiorentino abbiamo sempre importato i farmaci dall'Olanda. Nelle Regioni in cui non è ancora stata approvata una legge sulla dispensazione gratuita, i malati arrivano a pagare le infiorescenze in farmacia 40 euro al grammo (12mila euro l'anno a seconda del dosaggio), e per farmaci come il Sativex (uno spray orale) 726 euro ogni tre flaconi. Il risultato è che fanno prima ad andare dallo spacciatore, assumendosene il rischio.

Le disparità tra regione e regione, tra città e città, sono un problema pure per chi da sempre è su posizioni anti proibizioniste, come i radicali. «In alcuni casi, i provvedimenti delle Regioni si limitano a recepire quanto stabilito dalla normativa nazionale - osserva Antonella Soldo dell'Associazione Luca Coscioni -, altrove sono previste campagne di informazione per il personale medico oppure apposite voci di spesa nei bilanci, mentre in altri casi sono stati avviati progetti pilota per la coltivazione a scopi terapeutici».

Pionieri salentini

È quello che succede in Puglia. Dici Salento e pensi alla Jamaica d'Italia. Ma a Racale (Lecce) trasgressione fa rima con sofferenza. Lucia Spiri, trentenne malata di sclerosi multipla, suo marito William Verardi e l'attivista Andrea Trisciuoglio - anch'egli affetto da sclerosi multipla - hanno aperto due anni fa il primo e per ora unico Cannabis social club del nostro paese. LapianTiamo è un'associazione non profit che conta oltre 700 soci, tra cui centinaia di malati. Punta a facilitare l'uso terapeutico della cannabis, a mettere in contatto pazienti e istituzioni, a offrire supporto e informazioni. Racconta William, che coordina donazioni e campagna di tesseramento: «Tra sito internet e pagina Facebook abbiamo superato 200mila contatti e 15mila email ricevute. C'è grande attenzione verso di noi. Ora vogliamo fare il grande salto». Passare cioè alla coltivazione diretta della marijuana. «Sempre e solo ad uso terapeutico», assicura. Il club ha già un terreno di seimila metri quadrati, fondato una srl, ottenuto il disco verde della Regione, e con la collaborazione delle Asl e dei ricercatori delle università del Salento e della Sapienza di Roma, chiede l'autorizzazione nazionale per cominciare a coltivare, confezionare e distribuire cannabis a chi ne ha bisogno a 1,55 euro al grammo (per le infiorescenze). «Altrimenti ci autorizziamo da soli», avvertono i ragazzi di LapianTiamo.

Pericoli dietro l'angolo

Il format sviluppato in Salento attira le attenzioni di molti. Annunci e indiscrezioni sulle aperture di nuovi Cannabis social club si moltiplicano da Torino, Bergamo, Bologna, Genova, Roma, Napoli e Pisa (questa primavera). Progetti che, almeno sulla carta, si muovono sul terreno della legalità. Ma il rischio di forzature è alto. Centri sociali e circoli Arci sono in fermento. Inizialmente si parla di uso terapeutico, ma è evidente che l'obiettivo a medio termine è sdoganare l'uso «ludico» o «ricreativo». In poche parole, aggirare le regole in vigore e giungere alla legalizzazione di fatto del consumo di droghe. Aprire luoghi in cui si possano fumare spinelli senza problemi, insomma. La rete italiana antiproibizionista e le Ong riunite sotto la sigla Encod (Coalizione europea per politiche giuste ed efficaci sulle droghe) fanno circolare «manuali» per chi vuole costituire nuovi Csc, con tutti i paraventi legali del caso. Ecco nero su bianco la mission di chi è pronto perfino a usare le ragioni dei malati per raggiungere scopi completamente diversi. «I Cannabis social club sono a tutti gli effetti delle associazioni non profit che intendono svilupparsi nei Paesi dove il consumo personale della cannabis è depenalizzato, proprio con l'obiettivo di poterne praticare la coltivazione collettiva e soddisfare il consumo personale dei soli soci adulti che ne fanno parte». Più chiaro di così...

L'erba del vicino

Se non proprio i celebri coffee shop in stile Amsterdam, oggi i modelli di riferimento sono piuttosto i Cannabis social club esplosi in Spagna negli ultimi anni, da quando è consentito l'uso domestico, la coltivazione e il consumo di cannabis in luoghi privati. In tutto il Paese sono circa 400 i Csc, la metà dei quali in Catalogna, con un giro d'affari stimato in dieci milioni di euro al mese (praticamente esentasse). Business che fa gola anche da noi, se solo il sistema si potesse importare. L'avvocato di Bologna Elia De Caro ha offerto consulenze a chi sta preparando la strada ai Csc all'italiana, è il caso del centro sociale Gabrio di Torino. «Al momento ragioniamo esclusivamente sull'uso terapeutico della cannabis. In Italia la coltivazione per l'uso personale è reato. Ma dopo la bocciatura della legge Fini-Giovanardi non è escluso - spiega il legale -, che in un immediato futuro possano aprirsi spiragli per un riconoscimento davanti a un giudice di questo diritto (come “stato di necessità”) anche per i non pazienti. E quindi consentire a un'associazione regolarmente registrata di coltivare le sostanze, per poi distribuirle a un numero controllato di soci maggiorenni, a scopo curativo e ricreativo».

Ed ecco servita la legalizzazione all'italiana.

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