Controcultura

Le tavole sacre e antiche che dettano legge a Sutri

Dalle opere fedeli l'icona acheropita (cioè creduta non di mano umana) ad Antoniazzo Romano

Le tavole sacre e antiche che dettano legge a Sutri

L'apertura di un museo è un atto ambizioso ma, nel caso di Sutri, è un passaggio indispensabile. La formidabile coincidenza fra il restauro esemplare affidato dal vescovo di Civita Castellana, Romano Rossi, alle sensibilissime cure dell'architetto Romano Adolini, e la guida della città affidata a uno storico dell'arte, lo impone. La nuova struttura, concepita con grandissimo rispetto, per finalità espositive, in Palazzo Doebbing, è tra le più accoglienti ed avanzate non solo della Tuscia, ma di tutta la Regione e della stessa città di Roma.

Palazzo Doebbing, con la sua versatilità e i suoi spazi luminosi, è un dono di Dio. Così si aprono le prime sale del «Museo di arte antica e di arte sacra». La prima opera che arriva, ben augurante, è l'Efebo di Sutri, riapparso un secolo fa, e poi di nuovo sommerso. L'Efebo fu ritrovato nel 1912 a Sutri da due contadini, Giacomo Brigotti e Giuseppe Bomarsi, durante i lavori di dissodamento di un terreno che non presenta traccia di antico abitato e che fa presupporre la statua fosse stata portata e nascosta nel sito del ritrovamento. La statua di bronzo, alta 78 centimetri, del primo periodo imperiale, il primo secolo dopo Cristo, fu per lungo tempo conservata nei depositi del museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo.

La statua rappresenta una figura maschile giovanile, con il braccio destro sul capo e il sinistro piegato in modo da portare ad altezza del volto un oggetto ora mancante, forse uno specchio. Ha i capelli lunghi raccolti sopra la testa e stretti attorno alla nuca da un cercine, intorno al quale sono accolte le ciocche più lunghe. La gamba sinistra è spezzata perché probabilmente è stata strappata dal supporto originale, che è stato perduto. La somiglianza dell'Efebo con la maggior parte dei bronzi pompeiani lo vuole prodotto da un'officina nazionale, come si conveniva al gusto e al lusso dell'arricchita borghesia romana.

Le tavole più antiche sono nella seconda sala, sotto il fregio di tele che illustrano le proprietà della diocesi con le variazioni volute da Doebbing. Si vedono, fra le altre, le vedute del palazzo di Sutri prima e dopo l'intervento di trasformazione in castello merlato e turrito, come appare nella foggia attuale. Monsignor Doebbing fu tra i primi a intuire le potenzialità di un turismo devozionale, in Tuscia come un Umbria; e la stanza della sua visione è questa dove ci accoglie il suo ritratto elegantemente dipinto nel 1907 da Giuseppe Gonnella; e vi sono accolte le opere più preziose della diocesi, l'una all'altra collegata. Si tratta delle due tavole con il Salvatore della cattedrale di Sutri e della chiesa di Santa Maria di Capranica. Esse sono le derivazioni più fedeli dell'icona acheropita (creduta non dipinta da mano umana), custodita nel Santa Sanctorum lateranense, dalla quale derivano tutte le tavole medievali che rappresentano il Salvatore in trono). Le due tavole di Sutri e Capranica vanno considerate esemplari intermedi tra l'acheropita e le successive immagini del Salvatore trecentesche e quattrocentesche. Ad esse segue, anche per la campitura spaziale del trono, il Salvatore benedicente firmato da Nicolò di Pietro Paolo e Pietro di Nicolò per la chiesa di Santa Maria assunta di Trevigiano Romano.

La regale immagine, nella più antica e integra versione di Sutri, è particolarmente impreziosita da un ampio panneggio dorato che fascia il Cristo dal collo alle gambe, con un nodo al centro che si giustappone a un accenno di anatomia, all'altezza delle ginocchia. La datazione della tavola va indicata tra il 1170 e il 1207. Della prevalenza di schemi bizantini avevano parlato Toesca e poi, tra gli altri, Mortari e Lazarev. È utile per la risoluzione della questione cronologica valutare la modalità della reposizione delle reliquie nella tavola. A Sutri la reposizione, volutamente nascosta, va riconnessa alla storia dell'icona, della cattedrale e della città. Il Salvatore di Capranica è ispirato e derivato da quello di Sutri. Meno prezioso, obbedisce alla medesima iconografia, con un più esplicito linearismo. I confronti sono stati istituiti anche con i Salvatori benedicenti di Tarquinia e di Trevignano. Per la sua esecuzione si è proposto con insistenza l'ambito romano. Il confronto diretto delle due tavole conferma il primato di quella di Sutri.

Nella stanza successiva trova spazio la tavola San Bernardino da Siena di Sano di Pietro: prototipo di scuola senese, è una delle tre versioni conosciute nell'immagine del santo dipinte dal pittore. La fortunata iconografia coincide con il tempo della canonizzazione di San Bernardino, avvenuta nel 1450. L'allineamento della figura che occupa quasi integralmente la tavola sembra annullare l'effetto di sospensione in cielo dei due angeli che sostengono il santo in volo sopra un basso paesaggio collinare punteggiato da torri. Il prevalente carattere devozionale lascia poco spazio all'invenzione del pittore che, soprattutto nella maturità, poco la coltiva. Ben più libera e creativa, e di altissima qualità formale, è la Sacra famiglia di Antoniazzo Romano proveniente dalla cattedrale di Santa Maria Maggiore a Civita Castellana. La tavola, dipinta tra il 1475 e il 1480, fu riconosciuta da Italo Faldi nella chiesa di San Francesco, ed è tra le più alte testimonianze della lezione di Piero della Francesca, in area umbro laziale e in dialogo con Pier Matteo d'Amelia. La sublime conciliazione tra l'evidenza dei volumi nello spazio, della testa della vergine e delle mani di San Giuseppe, e il fondo oro, che non soffoca l'aria, non interdice il risultato prospettico, anzi lo esalta, in una improvvisa sospensione, tanto estatica quanto era statica in Sano di Pietro.

Chiude la serie di tavole il trittico di San Terenziano (dalla omonima chiesa di Capranica) di Antonio del Massaro detto il Pastura, una tempera moderna su fondo oro. San Terenziano, patrono della cittadina viterbese, è raffigurato nella tavola centrale, benedicente, con un lungo piviale trattenuto da un fermaglio, la mitra e i guanti liturgici. Nei pannelli laterali sono dipinti San Rocco e San Sebastiano. Le tre figure sono su un fondo oro, per esigenza conservatrice dalla committenza. Il trittico, esposto per la prima volta nella mostra «La pittura viterbese dal XIV al XVI» del 1954, fu riconosciuto da Italo Faldi come opera di Antonio del Massaro, detto Pastura, in una declinazione concorde con le «forme più tarde di Antoniazzo Romano». Il Pastura lavorò con il Pinturicchio nell'Appartamento Borgia e, da solo, nel coro del Duomo di Tarquinia. Nel plastico e prospettico San Sebastiano mostra anche l'influsso del Signorelli.

E il museo continua..

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