Politica

IL TORMENTONE DELLA RITIRATA

Il sette ottobre prossimo saranno trascorsi sei anni dall'operazione Enduring Freedom in Afghanistan e l’interrogativo che lacera la sinistra italiana è sempre lo stesso: «morire per Kabul?». Si potrebbe pensare che siamo di fronte a un tema nobile del pacifismo, in realtà qui c’è la naturale prosecuzione del «morire per Danzica» che agitò le buone coscienze nell’incombere della Seconda Guerra mondiale. Come allora, dietro la retorica si nascondono scetticismo e cinismo.
Il primo è figlio della scarsa fiducia negli strumenti a disposizione delle democrazie per comporre i conflitti (diplomazia e guerra, nelle loro varie sfumature), il secondo è l’idea di chi pensa che quella stessa democrazia sulla quale è adagiato da cinquant’anni non sia una conquista che si possa estendere a tutti.
Nella politica estera del governo questa visione del mondo è dominante e i suoi effetti sono ad ampio raggio. Il rapimento degli agenti del Sismi e il blitz delle forze speciali anglo-italiane per liberarli non si sottrae a questa interpretazione della realtà, resa ancor più radicale dalla presenza nell’esecutivo di forze politiche ostili agli Stati Uniti e alla Nato.
Il pacifismo all’italiana pretende nella sua versione moderata di avere un piede nell’Alleanza Atlantica e l’altro piede libero di scalciarla, mentre in quella estremista postula l’isolamento del nostro Paese dai forum della comunità internazionale.
L’operazione per liberare i militari del Sismi dimostra invece che senza alleati non si va da nessuna parte: né a fare la guerra né tantomeno a costruire la pace dove c’è la guerra. Rivela le debolezze della nostra diplomazia: prima del blitz, il ministro degli Esteri Massimo D’Alema aveva chiesto la mediazione dell’Iran, cioè del Paese che fornisce armi ai talebani - leggere il Washington Post del 16 settembre - della zona di Farah, dove operano gli italiani. L’intervento in Afghanistan è una diretta conseguenza dell’attacco dell’11 settembre 2001, è figlio della nostra adesione alla Nato, è l’applicazione dell’articolo 5 del trattato del Nord Atlantico, è una missione autorizzata dalle Nazioni Unite, è un dovere del Paese nei confronti della comunità internazionale. Chiedere il ritiro delle nostre truppe significa mancare a quel dovere. Prodi non può ignorare la frattura all’interno della sua coalizione: il Pdci chiede il ritiro, Rifondazione comunista prende le distanze dal blitz («era meglio trattare») e dalla Nato («occorre rivedere le strategie»), così pure i Verdi («i blitz non siano la regola»).
Non è in discussione un aspetto particolare della diplomazia, ma l’architrave della nostra politica estera, quella che ci lega fin dal Dopoguerra all’Occidente.

Per questo quando un partito di governo esprime posizioni così radicali, è più che legittimo - anzi doveroso - che l’opposizione chieda la verifica della maggioranza in Parlamento.

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