Cronache

La "trasparenza" della Cassazione e il problema della privacy

La "trasparenza" della Cassazione e il problema della privacy

Come preannunciato nella Relazione di apertura dell'attuale anno giudiziario, la Corte di Cassazione ha pubblicato sul proprio sito web istituzionale, rendendole accessibili a tutti, le sentenze civili pronunciate negli ultimi cinque anni, con indicazione di nomi e cognomi delle parti e di tutti i soggetti a vario titolo e ragione coinvolti nei contenziosi e dunque testimoni, consulenti di parte e d’ufficio, e terzi tutti. Un’iniziativa pregevole dal punto di vista tecnico e giuridico che, tuttavia, ha destato la preoccupazione del Garante in ordine al diritto alla tutela dei dati personali. Nell’ultimo anno, in particolare, a partire dalla emblematica sentenza Google Spain la Corte di Giustizia Europea e le Autorità garanti nazionali, ivi compresa quella italiana, hanno lavorato per arginare e prevenire i rischi legati alla immaterialità e accessibilità senza confini della Rete. Su questo sfondo l’iniziativa di Piazza Cavour tuona come un’incongruenza.

E dire che il problema della privacy e dell’oscuramento dei dati identificativi delle sentenze e dei provvedimenti giudiziari in genere non rappresenta certo una novità per il nostro ordinamento. L’art. 52 del Codice in materia di protezione dei dati personali interviene a disciplinare il momento della diffusione della sentenza o del provvedimento per finalità di informazione giuridica, impregiudicato quanto espressamente previsto dai codici di procedura in ordine alla redazione, contenuto e pubblicazione dei provvedimenti delle autorità giurisdizionali.

Il sistema si articola su due livelli. Il primo livello affida all'intervento del giudice l'anonimizzazione delle generalità e di altri dati identificativi. In presenza di legittimi motivi, qualunque interessato (non solo la parte del giudizio) può chiedere, con istanza scritta depositata nella cancelleria o segreteria dell'autorità procedente prima che sia definito il relativo grado di giudizio, che sull'originale della sentenza o del provvedimento sia apposta, a cura della cancelleria o segreteria, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi dell’interessato stesso riportati sulla sentenza o provvedimento. L'autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento decide in ordine all’istanza di anonimazione e può disporla anche d'ufficio.

Al secondo livello di tutela, l'anonimizzazione dei dati identificativi avviene in forza di un preventivo apprezzamento del legislatore. Infatti il comma 5 dell'art. 52 da un lato fa salvo l’art. 734-bis del codice penale relativamente al divieto di divulgazione delle generalità delle persone offese da atti di violenza sessuale senza il consenso di costoro e dall’altro, in caso di diffusione di decisioni giudiziarie, prevede l’omissione in ogni caso, delle generalità, di altri dati identificativi o di altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l'identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone.

Nella fattispecie, presupponendo che la pubblicazione delle circa 160 mila sentenze civili dei giudici di legittimità non abbia violato casi né di anonimizzazione autorizzata, né ex lege, purtuttavia si comprendono le preoccupazioni del Garante che ritiene che le finalità di informazione giuridica possano comunque essere soddisfatte anche attraverso l’oscuramento delle generalità degli interessati e la salvaguardia dei loro diritti.

E la preoccupazione del Garante ha un precedente illustre. L’emblematico caso della sentenza Google Spain ha dimostrato come la consacrazione del diritto all’oblio fosse assolutamente fragile ed effimera. Dopo solo due mesi dalla pubblicazione della sentenza di Mountain View, infatti, le profetiche critiche di esperti, giuristi, addetti ai lavori e giornalisti si sono realizzate sul sito «Hidden from Google» creato dal programmatore del New Jersey, Afaq Tariq, un vero e proprio compendio di tutto quanto omesso, cancellato e censurato da Google: “Lo scopo di questo sito è quello di elencare tutti i link che vengono censurati dai motori di ricerca a causa della recente sentenza di "diritto all'oblio" nell'UE. Questo elenco è un modo di archiviare le azioni di censura su Internet. Sta al lettore decidere se le nostre libertà vengono rispettate o violate dalle recenti sentenze della UE”.

L’intuizione del programmatore americano già aveva fatto riflettere e concludere che un dato immesso nella rete può essere rimosso, ma non può mai essere cancellato. Ora l’iniziativa della Corte di Cassazione costituisce l’ennesimo spunto di riflessione sul tema dei rapporti tra Rete e diritto alla privacy, con un interrogativo ulteriore: come si concilia la previsione di tante cautele quando sono proprio coloro che le regole devono far rispettare a far venir meno (almeno apparentemente) ogni barriera di protezione? Il problema non è di poco conto poiché la rete è accessibile a chiunque e la differenza (seppur enorme) tra utilità giuridica e mera curiosità non è (purtroppo) così scontata.

Avv. Alessandra Fossati esperta in diritto dell’informazione,

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