Controcultura

Le tristi liriche a se stesso dello psicologo Pirandello

Gli autoritratti evidenziano la vena leopardiana del pittore Fra malinconia e depressione

Le tristi liriche a se stesso dello psicologo Pirandello

Inediti e sorprendenti sono gli autoritratti, prevalentemente disegni e pastelli, di Fausto Pirandello presentati a Sutri, in Palazzo Doebbing. In un coro di artisti in dialogo, da Tiziano a Bacon. Una sequenza temporale che va dal 1915, quando il pittore ha sedici anni, fino agli anni Settanta. Sono in gran parte fogli dello stesso formato, nei quali il pittore si scruta con un'ossessione implacabile e senza indulgenza, se non forse nella prima, romantica e invitante, immagine. Poi inizia una progrediente amarezza, il pensiero della solitudine come condizione irreparabile.

Pirandello si interroga. Il suo sguardo è disarmato. Ma Pirandello è un uomo indifeso, porta con sé il disagio del rapporto con il padre, la cui personalità lo domina. Anche per questo nel 1927 lascia l'Italia per trasferirsi a Parigi, con l'amatissima moglie Pompilia conosciuta ad Anticoli Corrado. Terrà segreto il matrimonio al padre fino al 1930. Il trasferimento a Parigi è una vera e propria fuga, per sottrarsi ai condizionamenti psicologici del padre, e anche l'occasione per conoscere le esperienze più significative dell'arte contemporanea da poco entrata nella stagione surrealista. A Parigi incrocia il gruppo degli Italiens de Paris (specialmente Giorgio De Chirico e Filippo de Pisis), conosce più da vicino le opere di Cézanne, dei cubisti (Picasso e Braque) e dei pittori della Scuola di Parigi (l'École de Paris). E qui diventa padre di un maschio, Pierluigi, il 5 agosto del 1928. La sua prima esposizione parigina, con Emanuele Cavalli e Francesco Di Cocco, è in casa della contessa Castellazzi-Bovy; poi espone alla Galerie Vildrac (1929): ed è la prima personale, a cui ne segue una seconda a Vienna, nel 1929.

Seguire i segni sul suo volto nel corso dei decenni non muta la sua condizione psicologica. Disegni e pastelli ci mostrano una mortificazione e un disagio contrastati dall'orgoglio, ma senza via d'uscita. Sono documenti di una crisi non risolta ma composta, non gridata, all'opposto della devastazione dei volti di Francis Bacon, e piuttosto affine all'umore nero di Lucian Freud, tra malinconia, inquietudine e depressione. Osservando i volti turbati e disturbati di Pirandello ritornano le parole di Leopardi in A me stesso: «Or poserai per sempre, / Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo, / Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento, / In noi di cari inganni, / Non che la speme, il desiderio è spento. / Posa per sempre. Assai / Palpitasti. Non val cosa nessuna / I moti tuoi, né di sospiri è degna / La terra. Amaro e noia / La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. / T'acqueta omai. Dispera / L'ultima volta. Al gener nostro il fato / Non donò che il morire. Omai disprezza / Te, la natura, il brutto / Poter che, ascoso, a comun danno impera, / E l'infinita vanità del tutto».

Anche nelle opere tarde, anche nelle comprovate contraddizioni formali, con il risorgente cézannismo che si vede nelle sperimentali Bagnanti con effetti d'acqua e ancor più nelle Bagnanti come arazzo, resta una sensuale attrazione per la materia che è stata perfettamente colta da Michelangelo Masciotta: «Oggi che questo processo di complicazione (non di disgregazione come ha affermato in uno scritto il pittore) è giunto quasi al suo punto di rottura, dobbiamo constatare, non senza meraviglia, che la sua materia appare tanto più preziosa quanto più si fa tormentata».

Pirandello si congeda da noi con il malinconico e fiero Autoritratto in bianco, del 1972 circa. Come in altri autoritratti, la testa sembra non volersi far contenere nel limite dello spazio del quadro. Lo si era già visto nell'Autoritratto assorto del 1948 e, in modo ancor più radicale, nel mirabile pastello del volto del pittore con la fronte tagliata, concepito fra il 1955 e il 1960. Qui la testa sfiora il limite del lato superiore, il pittore si immagina perfettamente in campo, con il volto definito con tratti veloci. Come più tardi un maestro come Avigdor Arikha, altro artista presagito da Pirandello per coincidenza di intuizione formale, forse senza avere ispirato una derivazione diretta. Un'altra prova dell'attualità di Pirandello, nell'indicare una condizione estetica relativa alla identità dell'uomo, non riducibile, nonostante le tentazioni e le lusinghe, alle forme stabilite di un'epoca. Anche Pirandello, non diversamente da Guttuso, alla fine, tra molte contraddizioni, resiste nella difesa di un umanesimo critico, perfino religioso.

Così Pirandello potrà svelarsi nella sua tentata autobiografia: «Nient'altro che piccole impertinenze le mie, gentili impertinenze. Mi si vede dal viso. Un viso capace di piccole e gentili impertinenze all'ombra di un naso proteso, sotto il lume di occhi blandi, soffusi e, quando mai, nelle rare mattane, più che vivaci inquieti... Come tutto in me è irrimediabilmente (forse anche diabolicamente) remissivo, gentile. Tanto non ci è dato in nessun modo derogare dall'ordine proprio che sono le forme del nostro apparire. La costruzione del nostro sentire, il ripiegarsi nel modo; e con questo di prospettarsi fuori altrimenti in qualcosa di persuasivo... Devo chiedere scusa ai miei figli di averli confusi con me stesso. Li trattavo come trattavo me stesso: e so ora - lo capisco tardi - di essermi sempre trattato male». Il padre Luigi lo aveva detto. Ma per Fausto non ci poteva essere altro destino.

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