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Tutti i traffici oscuri di Carlo De Benedetti: vendeva segreti all'Urss

Un alto dirigente Olivetti: "Fornivamo materiale proibito ai sovietici Persino Bush accusò l’Ingegnere. Ma in galera per spionaggio ci sono finito solo io". Cossiga: "Dietro gli attacchi a Berlusconi i vescovi che guardano a sinistra"

Tutti i traffici oscuri 
di Carlo De Benedetti: 
vendeva segreti all'Urss

E Cossiga disse: «Caro Carlo, se non eravamo noi a farti scudo...». Cossiga è Cossiga, presidente emerito della Repubblica. Carlo è l’ingegner Carlo De Benedetti, l’imprenditore «tessera n. 1 del Partito democratico» ed editore del Gruppo l’Espresso. A raccontare le imprese dell’Olivetti, quando il marchio storico delle macchine da scrivere e poi dei computer era per l’appunto dell’Ingegnere e di Franco Debenedetti (fratelli e però diversi anche nel «de» attaccato o staccato), è Roberto Mariotti. Cinquantasei anni, uno dei massimi dirigenti dell’Olivetti a Mosca quando c’era ancora l’Unione Sovietica, condannato a 6 anni per spionaggio internazionale. Li ha scontati tutti dal 2001 (una volta rientrato dalla Russia dopo una storia d’amore finita male e una latitanza in Russia durata 11 anni).
Storie da guerra fredda, con il Muro e l’Armata rossa che era il principale nemico potenziale dell’Occidente. E quindi anche dell’Italia. Ma non dell’Olivetti che con l’Urss faceva affari d’oro. Esportando anche materiale elettronico ad alta tecnologia, sostiene Roberto Mariotti, e aggirando l’embargo imposto al regime comunista che si temeva potesse utilizzare queste forniture a scopi militari.
«Una grande ipocrisia», racconta al Giornale, «un traffico durato anni. Avveniva sotto gli occhi di tutti, solo con qualche accorgimento formale. Basti dire che da noi in Olivetti era presente anche un agente del Sismi, il servizio segreto militare. Era, o così diceva di chiamarsi, il signor Di Giovanni».
L’azienda di Ivrea si aggiudica un affare gigantesco nell’84 quando vince un contratto da 200 milioni di ecu (l’allora moneta della comunità europea, equivalente a 100 milioni di dollari) per il grande impianto di Leningrado. Qui si dovranno produrre le Cpu (Controll power unit), il «cervello» delle macchine a controllo numerico. Vince grazie alle entrature negli apparati sovietici ma anche alla capacità di fornire quanto viene richiesto. «La parte pulita cioè non soggetta alle restrizioni CoCom (ndr, era l’organismo che sovrintendeva all’embargo di merci “sensibili” verso il blocco dell’Est) formalmente veniva fornita dall’Olivetti, la parte sporca, cioè la strumentazione ad altissima tecnologia che mai e poi mai sarebbe potuta arrivare da un Paese membro della Nato come l’Italia, transitava per una società di copertura con sede a Vaduz, Liechtenstein. Si chiamava Sebato e l’amministratore era un uomo Olivetti - aggiunge l’ex manager -, Mario Guerreschi».
Il caso esplode nell’89 durante la visita del presidente della Repubblica Francesco Cossiga e del presidente del Consiglio Giulio Andreotti a Washington. Un Bush senior infuriato minaccia ritorsioni se l’Olivetti «non la smette». Non la smette di fare che? Le macchine a controllo numerico con la strumentazione fornita da Ivrea servono ai sovietici per mettere a punto il nuovo bombardiere a decollo verticale. Niente meno. E che succede? Praticamente nulla. «Caro Carlo, se non eravamo noi a farti scudo...», dirà anni dopo Cossiga.
«Fu licenziato Franco Saltori, il capodelegazione dell’azienda a Mosca», ricorda l’ex dirigente: «In realtà il sistema era più che collaudato». Come venivano superati controlli e dogane? «La parte sporca in carico alla Sebato per l’Europa formalmente veniva acquistata da una direzione della Philips e venduta alla Sebato, bolle e fatture indicavano materiale innocuo, stampanti o quant’altro, non sottoposto a embargo. Una volta arrivati al confine russo le fatture cambiavano, con la Sebato quale fornitore ed elencavano il tipo di merce. Nessuno si permetteva di controllare. Una volta un militare si è azzardato ad aprire il portellone e salire, l’ho visto volare giù dal camion...».
Storie di un mondo fa. Ma in quanti sapevano? «Ripeto, la fornitura di componenti proibite era parte integrante dei contratti. Sicuramente erano al corrente i manager a Mosca, come il responsabile del progetto di Leningrado e l’amministratore delegato dell’Olivetti» risponde Roberto Mariotti. È pensabile che non ne sapessero nulla Carlo De Benedetti e il fratello Franco? «Difficile crederlo. Personalmente ho accompagnato Franco Debenedetti a una trattativa alla Stankovimport (ndr, in russo «stankov» significa macchina: era l’azienda di Stato per l’importazione), facevo da traduttore...».
Scusi, signor Mariotti, le sue affermazioni sono pesanti, non provate se non dalla sua testimonianza, di cui si assume tutta la responsabilità. Perché ne parla ora? «A dire la verità, quando nel 2001 mi consegnai di mia volontà, perché figuriamoci se qualcuno si sognava di cercarmi, all’ambasciata italiana a Mosca per un mese è rimasto con me un uomo del Sismi. Al quale ho raccontato per filo e per segno tutto, e con dovizia di particolari ben maggiore. Non ne ho più saputo niente. Né mi risulta che nessuna procura abbia mai aperto un’inchiesta. Solo io ho scontato sei anni di carcere...».
Dopo tanto tempo è difficile trovare conferme. Ma non arrivano nemmeno smentite tranchant al suo racconto. Mario Guerreschi ora è impegnato a fare il nonno, da tempo è rientrato in Italia. «Non ero io l’amministratore della Sebato - precisa - ma un austriaco. Io mi occupavo di tutte le forniture edili, dai pavimenti “galleggianti” cioè quelli che vengono messi sopra i cavi, ai bagni, ecc., per il grande impianto di Leningrado. Eh, magari averne ancora di lavori così...», sospira: «Le forniture di materiale elettronico embargato? Se ne sentiva parlare, ma io non so nulla per conoscenza diretta. Ho già detto troppo. Sono cose delicate. Ci sono stati anche dei processi...». Si riferisce al processo in cui è stato coinvolto Roberto Mariotti? «Sì». Lei è stato chiamato come testimone? «No... Io fornivo quello che chiedevano i sovietici, con quelli dell’Olivetti eravamo tutti un gruppo... Diciamo che la Sebato collaborava con l’Olivetti».
Franco Saltori, all’epoca responsabile dell’azienda di Ivrea a Mosca, è ancora in Russia con una sua società. Risponde cordiale e amichevole: «La Sebato? Il nome non mi dice nulla. Ma non è detto che cercando nella memoria non la ritrovi. Guardi comunque, su questa storia delle forniture proibite si è molto fantasticato, si è molto ingigantito rispetto alla realtà. E io non fui licenziato nell’89. Diciamo che me ne ero andato un anno prima, facendo l’errore più grave della mia vita. Fossi rimasto con l’Ingegnere e con Robertino...». Robertino chi? «Ma come chi? Roberto Colaninno, allora il braccio destro di De Benedetti. Fossi rimasto, dicevo, magari adesso sarei all’Alitalia».
Anche Franco Debenedetti, ex senatore dei Ds e fratello di Carlo, è molto gentile. Dopo averlo cercato, richiama lui. «Mai sentito parlare della Sebato», spiega: «Tutto avveniva alla luce del sole. Se Bush sollevò il problema è perché parlava di cose risapute, no?». Veramente gli Usa vi accusavano di cedere ai sovietici componenti che avrebbero avuto un impiego nella potentissima macchina bellica contro l’Occidente e l’Italia. «Bush me lo fa venire in mente lei ora... Guardi, la cosa è semplicissima - ribatte l’ex senatore -, delle macchine a controllo numerico me ne occupavo io. C’erano macchine che si potevano esportare e altre no. L’Olivetti effettuava le forniture autorizzate. Del resto non vedo neanche come si potessero aggirare i controlli. Tutto qui. Nei confronti dell’Olivetti non ci sono mai stati procedimenti. Ciò che conta è ciò che è stato accertato. Il resto sono fantasie».
Il problema è proprio questo. Il racconto di Roberto Mariotti non è mai stato accertato, non è mai stato verificato se ciò che dice abbia il minimo fondamento oppure no.
Il momento della verità sarebbe potuto arrivare il 13 luglio ’90. A Torino sono arrestati Maria Antonietta Valente, da sempre a capo della segreteria Divisione estero dell’Olivetti, e Victor Dmitrev, un agente del Gru, lo spionaggio militare sovietico. La donna sta consegnando un importantissimo - e segretissimo - codice Nato. Nella busta in realtà c’è carta straccia, ma i due non lo sanno. Roberto Mariotti sfugge alle manette perché è a Mosca. Per la magistratura italiana è stato lui a dire all’impiegata modello dell’Olivetti, su domanda dei sovietici, di procurare il codice. «Era una delle tante richieste che arrivavano - racconta ora -, ma io non avevo la più pallida idea di che cosa fosse».
Il processo a Torino nel ’91 si conclude con condanne severe, quattro anni all’impiegata modello e al sovietico, sei anni in contumacia a Mariotti. Apparentemente severe. La donna ha avuto subito gli arresti domiciliari, l’agente segreto poco dopo è graziato dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Inchiesta e processo sono rimasti circoscritti all’episodio. Non risulta che Carlo De Benedetti, gran capo dell’Olivetti e del gruppo editoriale Repubblica-Espresso, sia mai stato sentito. Del resto le antenne dei mass media sono orientate altrove. Siamo alla vigilia di Tangentopoli, il «Giudizio universale» che sotto le accuse di corruzione e finanziamenti illeciti spazzerà via tutti i vecchi partiti, tutti tranne il Partito comunista italiano.
L’unico che potrebbe avere molto da dire è lui, Roberto Mariotti. Però è a Mosca a godersi una latitanza non difficile con un regolare passaporto russo, una moglie russa, aiutato dagli amici russi. Quando la storia d’amore con la donna da cui ha avuto l’adoratissimo figlio naufraga, nel gennaio del 2001 si consegna all’ambasciata italiana ed è estradato in Italia. Ma sembra non interessare più a nessuno, personaggio di un tempo morto. Anche se qui da noi sono aperti diversi filoni di inchiesta per (non) accertare la rete di spie, gli scambi inconfessabili, la galassia delle collusioni con l’ex nemico dell’Est. Nessuno si affaccia alla sua cella.
«La cosa riguardava alcuni dipendenti. L’Olivetti non c’entrava nulla, come ha stabilito il processo senza dubbio» ripete Franco Debenedetti. Ma non le sembra che la vicenda dimostri quanto meno una certa consuetudine, da parte di alcuni dirigenti, a questi traffici? Forse è un’impressione, ma la voce ora suona appena un po’ irritata: «Sa una cosa? I dirigenti all’epoca a Mosca avevano una vita molto dura». In che senso? «Pensi lei quante D’Addario ci potevano essere... E con questo la saluto, buona sera». «Ai tempi d’oro alcuni dirigenti dell’Olivetti a Mosca» replica Roberto Mariotti, «mi avevano assicurato che c’erano dei fondi speciali nel caso in cui fosse successo qualcosa, di non preoccuparmi. Quando sono uscito dal carcere, Franco Debenedetti mi ha risposto: ci sono due organizzazioni che danno soldi, le banche o gli usurai».
pierangelo.

maurizio@alice.it

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