Cronache

Tutti pazzi per la favola di William e Kate Quanta invidia ci fanno, questi inglesi così uniti

Per gli italiani il fascino del "sì" regale è anche questo: un popolo intero che si ritrova nei suoi simboli. Noi restiamo sempre divisi e scontenti. Oggi le nozze del secolo: tutti i dettagli dalla A di abito alla Z di zaffiro. Il programma: Dall'alba alla notte, tutta la giornata è stata organizzata minuto per minuto SEGUI LA DIRETTA DALLE 11

Tutti pazzi per la favola di William e Kate 
Quanta invidia ci fanno, questi inglesi così uniti

Un po’ di invidia. Compressa, sotto vuoto, ma c’è, affiora, pervade. Stamattina, soprattutto. Vedere gli inglesi, arrossati sulle guance, piangere e unirsi, in festa, per il matrimonio Windsor, provocherà qualche prurito al derma di molti italiani. Mannaggia a loro, quando vogliono, e vogliono spesso, sanno come ritrovarsi, il discorso del Re o della Regina non è soltanto un film da Oscar, è roba vera, genuina, patriottica. Così come la bandiera a stelle e strisce che sventola comunque e sempre nelle cose o sulle case americane, si tratti della guerra, del Columbus day, della finale del Super Bowl, del discorso di Obama o di un’orazione funebre al cimitero Arlington.

Dio salva la Regina, zio Sam chiama i cittadini alle armi, il Regno è Unito, gli Stati sono Uniti e noi, italiani, siamo qui a cercare di capire, dopo centocinquanta anni, che cosa significhi effettivamente, realisticamente l’unità del Paese, anche perché basta un attimo, un dibattito televisivo, una partita di football, un’assemblea condominiale per smentire l’assunto, per confermare il tutti per nessuno, uno per se stesso. È sempre anno zero. Garibaldi? Un bel tipo, alla Che Guevara, anche per via dell’Anita. Cavour? Un piemontese occhialuto, pieno di denari e di ministeri. Mazzini? Ha lo stesso cognome della Mina. Vittorio Emanuele? Lasciamo perdere.

Catastrofismo? Può darsi, aspetto prove televisive, sostanziali e sostanziose che, come per gli inglesi e come per gli americani, esista ancora qualcosa, qualcuno, che riesca a farci sentire davvero uguali, stretti uno all’altro, compatti, fratelli d’Italia come recita l’inno che è di Mameli Goffredo da Genova Voltri, anche se, ultimamente, c’è chi ritiene sia da attribuire a Benigni Roberto, da Manciano la Misericordia (poi Vergaio).

Per esempio domenica la beatificazione del Papa Giovanni Paolo II raggrumerà un popolo di fedeli e non, nella memoria di un pontefice che, lui sì, era riuscito a mettere insieme anime diverse, non soltanto per fede religiosa, persone e cittadini distanti sull’atlante e nel pensiero, vicini nell’emozione di un uomo prima grande e grandioso, poi sempre più piccolo, fragile, incurvato dalla sofferenza, infine silenzioso, spento, sfinito, finito. Ecco, allora, la storia è diversa, il Papa polacco era un simbolo venuto da fuori, un estraneo diventato l’antifurto della vita italiana. Ma chi altro? Che cosa d’altro? La nazionale di pallone? Soltanto quando vince, minimo un titolo mondiale, altrimenti sono pomodori e insulti. Il campione che domina il Tour di ciclismo? No, si dopa. La nuotatrice piena di ori olimpici? Va in paranoia. Il maratoneta? Non dura. Il pugile? È suonato. Il motociclista plurimondiale? Un evasore fiscale. Portineria, roba effimera, coriandoli subito bagnati, le bandiere vengono sventolate per scrollare di dosso la polvere, pulizia di primavera, quindi rientrano negli armadi perché si deve tornare alla baruffa, al gioco del «contro», alle nomination per far fuori il rivale che è comunque un nemico.

Non abbiamo i Windsor (ve li raccomando) ma con i Savoia c’è poco da divertirsi se non quando recitano da ballerini e da naufraghi. Non abbiamo zio Sam, qui i parenti sono serpenti.

Dobbiamo allora trastullarci con le nostre feste di popolo, così si potrebbero definire i rave party (roba da matti, in senso buono), le adunate dei sindacati, il concertone del Primo Maggio (domenica si canta, in contemporanea con beato Karol, ostia!). Non, altro se non sagre locali, successi sportivi, il santo sangue sciolto, le madonne in lacrime, la benedizione urbi et orbi.

L’italiano è forte, gli italiani un po’ meno, il paese è lungo, la gente mormora, i cortili sono numerosi e affollati, i campanili si moltiplicano. Per rendere l’idea, cito una battuta splendida del vignettista Pazienza (Paz): «L’Italia è il settimo paese industrializzato», «Guarda un po’ Bitonto a che posto sta!».

Nessuno osa più intimare, come fece Peppino Garibaldi: «Qui si fa l’Italia o si muore». In molti preferiscono «farsi» per poi morire, piuttosto che pensare di fare l’Italia.

Buon venerdì, dunque, ai perfidi inglesi tutti in fila ordinata, invitati a nozze. Poi domenica, con il capo chino, in coda sghemba e incasinata, per una dolce preghiera a Karol, noi italiani uniremo le mani.

Le mani, soltanto le mani, unite.

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