Politica

Il Vaticano a Israele: «Non accettiamo lezioni da nessuno»

Gelida risposta ufficiale dopo che Sharon aveva accusato il Papa di dimenticare le vittime ebraiche del terrorismo: «Critiche pretestuose»

Omar Sherif H. Rida

da Roma

La Santa sede non accetta insegnamenti e direttive da altre autorità. Le accuse di Israele a Benedetto XVI di non aver inserito, domenica scorsa, lo Stato ebraico nell’elenco dei Paesi colpiti dal terrorismo internazionale sono «pretestuose». La dura reazione del portavoce vaticano, Joaquín Navarro Valls, alle dichiarazioni rilasciate martedì scorso al quotidiano Jerusalem Post dal direttore del ministero degli Esteri, Nimrod Barkan, contribuisce a inasprire le relazioni diplomatiche tra i due Stati, già precarie per la difficile trattativa per il rinnovo dell’Accordo fondamentale fra Santa sede e Israele, che dovrebbe definire lo status economico e giuridico della Chiesa in Israele.
Un attacco duro e ingiustificato al Papa e alla linea politica del Vaticano degli ultimi anni, secondo Navarro Valls. «L’insostenibilità della pretestuosa accusa rivolta al pontefice - si legge nella lunga nota diffusa ieri - per non aver menzionato, durante l’Angelus di domenica scorsa, l’attacco terroristico di Netanya del 12 luglio - nel quale persero la vita cinque israeliani -, non può non essere apparsa evidente a chi l’ha sollevata».
A tal punto che, per il portavoce vaticano, per sostenere la tesi si è dovuta spostare l’attenzione sui presunti silenzi di Giovanni Paolo II circa gli attentati del passato contro Israele, quando è universalmente riconosciuto che gli interventi di Wojtyla «contro ogni forma di terrorismo e contro singoli atti nei confronti di Israele sono stati numerosi e pubblici». A seguire, un minuzioso elenco dei discorsi dedicati da Giovanni Paolo II alla questione mediorientale durante i 26 anni di pontificato, fino alle parole pronunciate nell’Angelus del 13 febbraio scorso, a 40 giorni dalla morte: «Continuo a pregare per la pace in Medio Oriente».
Gelo diplomatico quindi e una polemica sul cui sfondo emerge la spinosa questione degli accordi bilaterali. Già lunedì scorso ambienti vaticani avevano etichettato le critiche a Ratzinger come una «cortina fumogena per nascondere la decisione del ministero degli Esteri israeliano di abbandonare i negoziati con la Santa sede, in programma lo stesso giorno». Negoziati che si trascinano ormai da tempo quelli per un accordo firmato proprio da Giovanni Paolo II nel 1993, e mai recepito nell’ordinamento giuridico israeliano perché incompleto in alcune materie fondamentali come le relazioni fiscali fra Stato e Chiesa (che prevedono il diritto ecclesiastico all’esenzione fiscale) e la sicurezza delle proprietà religiose. Da qui la riluttanza di una parte della Knesset a riconoscere un ruolo sociale alle strutture cattoliche.

Eppure nell’ultimo periodo le trattative sembravano aver avuto un nuovo impulso grazie all’intervento del nuovo ambasciatore israeliano presso la Santa sede, Oded Ben Hur, amico personale di Papa Ratzinger, che era riuscito a sensibilizzare il governo Sharon in materia, al punto che una commissione mista era riuscita a trovare un’equa composizione sui punti più spinosi. Poi l’improvviso stop e la tempesta diplomatica, dietro il quale si cela probabilmente la riluttanza di una parte del governo Sharon che giudica «prematura» un’eventuale conclusione positiva.

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