Cronache

La vera storia del prete partigiano e dell’eroe Buranello

La vera storia del prete partigiano e dell’eroe Buranello

Quando venne pubblicata, alla fine degli anni ’70, la prima edizione del libro su Giacomo Buranello, don Berto, che fu il prestigioso Cappellano dei Partigiani appartenenti alla «Divisione Mingo», mi volle parlare.
Pensavo che mi volesse gratificare, anche se in ritardo, di una sua testimonianza. Sapevo che Buranello aveva avuto modo di conoscerlo, ancora prima che in montagna, in varie occasioni di natura cospirativa. Quindi, presumevo di un suo rimprovero per non averlo citato. Non fu così.
E, nella sacrestia della Chiesa della Cella, a Sampierdarena, il parroco don Berto mi arringò con fare severo e senza mezzi termini che, quando Buranello espresse la volontà di scendere dalla montagna (zona della Benedicta dell’Appennino Ligure) per ritornare ad agire in città, nessuno dei vertici militari, che il quel periodo comandavano la III Brigata Liguria, tentò di opporsi. O, tanto meno, cercarono di dissuaderlo da quel suo disegno tanto eroico, ma impossibile - date le condizioni avverse - da realizzare.
Don Berto mi andava esternando queste considerazioni come volesse - pur non avendo nessuna implicazione morale con quanto stava rammentando - persino ammonirsi. Infatti, a onore del vero, in quei giorni specifici in cui si acconsentiva al «piano» di Buranello, don Berto si sarebbe trovato presso il Santuario della Madonna della Guardia (Monte Figogna) a colloquio con l’arcivescovo di Genova, cardinale Pietro Boetto.
Buranello, assieme ad un gruppetto di partigiani di sua fiducia, avrebbe dovuto - una volta raggiunta la città - appoggiare con azioni di sabotaggio gli scioperi che sarebbero stati proclamati per i primi giorni di marzo 1944. E, inoltre, tentare di colpire fisicamente un personaggio di alto incarico del Governo Fascista che presiedeva Genova, tipo il Prefetto oppure il Questore...
Approvando questo suo disegno avrebbe voluto significare destinare Buranello al suicidio.
Don Berto parlava accorato e a tratti zittiva. Forse pensava che l’argomento a cui mi sottoponeva fosse troppo delicato? Che avrei potuto anche utilizzare diversamente quelle affermazioni? Comunque compresi che don Berto mi avesse voluto dire - anche se già altre fonti mi avevano informato su ciò - che Buranello non condivideva soprattutto, il modo con cui ci si era predisposti - lassù in quelle brulle montagne - ad affrontare i soldati tedeschi e i fascisti loro alleati, con una tattica-militare di trincea, simile a quella adottata dagli eserciti nella Prima Guerra Mondiale. E purtroppo, quello che Buranello aveva preveduto, successe.
Il contingente di partigiani appartenenti alla III Brigata Liguria, nel mese di aprile 1944, venne completamente annientato dalle truppe sovrastanti germaniche.
Questa fu non solo una grave colpa d’incapacità militare, che don Berto imputava ai vertici dell’antifascismo ligure (Clnl), per non essere riusciti a capire e applicare, per i combattenti partigiani, le regole della guerriglia; ma, il nostro sacerdote nel suo giudizio critico, a proposito della sorte che avrebbe colpito il giovane Buranello, includeva senza riserve i massimi dirigenti politici alla guida del Partito Comunista genovese. Questi avrebbero dovuto - a parere di don Berto - imporsi, con determinazione, su quanto Buranello intendeva compiere. Tramite i Commissari Politici (tutti comunisti e che in ogni formazione partigiana affiancavano con funzione autorevole gli ufficiali militari) costringerlo, al limite, ad ubbidire. Affinché restasse in montagna, magari anche - e non sarebbe stata una eccezione - legarlo. In alcuni casi, questa punizione, venne applicata. Sarebbe bastato che egli non mettesse piedi in città... Imprigionarlo.
La Polizia fascista, informata anche da delatori, che erano riusciti ad infiltrarsi tra i partigiani, conobbe per tempo il suo itinerario. Era atteso. E fu la fine di Buranello.
La morte di Buranello (3 marzo 1944) deve essere collocata storicamente all’interno della profonda crisi che aveva investito gli orientamenti politici e militari dell’Antifascismo in generale e in particolare Genova e la Liguria.
Don Berto (Bartolomeo Ferrari) è nato a Sestri Ponente il 15 agosto 1911 ed è deceduto a Sampierdarena il 21 aprile 2007. E nella chiesa della Cella di Sampierdarena ha fatto il Parroco per circa 50 anni. Fu il Cardinale Giuseppe Siri che lo promosse, per meriti sacerdotali, a Monsignore. Ne andava fiero.
L’avversione al fascismo - ebbe modo di raccontarci e lo riaffermò in diverse occasioni - l’apprese già negli anni del Seminario. A metà degli anni ’30 (don Berto divenne sacerdote nel 1935) ad influenzarlo su tali idee - e non poco - furono le conversazioni preziose o lezioni «dotte» tenute dal Cardinale Carlo Dalmazio Minoretti, Arcivescovo di Genova dal 1925 al 1938. Fu proprio in questo periodo che si accentuò nei cattolici, sia laici che religiosi, una partecipazione al Fascismo cosiddetta silenziosa. Si poteva notare quasi un comportamento, nei confronti del Regime, passivo. Non del tutto entusiastico come Mussolini avrebbe preteso. Poi, nel dibattito culturale, sociale e politico - sempre negli anni ’30, anche tra gli intellettuali cattolici genovesi, si scoprì il pensiero di Maritain. Di questo filosofo e teologo francese si diffusero, in parte, le sue polemiche contro i regimi nazionalfascisti e socialisti, di cui era additata l’Urss, colpevole di perseguitare ed imprigionare i cattolici... Come si può constatare quanto poco si conosce della Storia della Curia genovese e dei suoi protagonisti maggiori, all’infuori di coloro che sono addetti ai lavori.
Di don Berto voglio ricordare un altro aspetto della sua personalità.
Un 25 Aprile, in anni ormai passati, venne nella fabbrica in cui lavoravo (mi riferisco alla Siac, che sarà in seguito incorporata dall’Italsider) a commemorare questa ricorrenza. Don Berto al termine della Messa, espresse il desiderio di intrattenersi alla mensa dello stabilimento. Con don Berto ci conoscevamo. Più volte avevo avuto occasione di frequentare la sua Sala cinematografica gestita dalla Parrocchia. Si dibatteva. Penso fu anche per questo che quelli del sindacato, membri della Commissione Interna, acconsentirono che mi aggregassi e gli stessi vicino.
Ben presto la discussione venne assorbita - ed era ovvio - su fatti e su episodi drammatici della guerra. È da sottolineare che tra i commensali c’erano degli operai che, dal 1943 al 1945, avevano fatto i partigiani nei luoghi in cui don Berto aveva esercitato da Cappellano. Per questo lui si rivolgeva a loro chiamandoli amichevolmente, per lo più, con soprannomi di battaglia. Costoro, dopo la Liberazione, ritornarono - chi era riuscito a salvare la pelle - a lavorare in fabbrica. Senza mia pretendere nulla.
In quel clima di ricordi espressi con passione, don Berto non si sottraeva a nessuna cruda realtà e, neppure, ad aspre valutazioni politiche su come - per alcuni - era andata a finire. Molte erano state le speranze deluse...
Quando gli sottoposi la domanda se non gli fosse mai prevalso nell’animo - in casi di estremo impatto drammatico - l’istinto di usare egli stesso le armi e mettersi a combattere, dato che si era venuto a sapere - ed io ne ero entusiasticamente impressionato - che altri preti lo avevano fatto in Sud America? La risposta si fece attendere in un silenzio glaciale. In quegli attimi sembrava che nessuno, addirittura, fiatasse. A quel punto supposi di averla detta grossa e che non tardasse di arrivarmi, meritatamente, per risposta - essendo ancora ben considerato un giovane, rispetto alle generazioni che mi attorniavano - un manrovescio o, da sotto il tavolo imbandito, un calcio.
Don Berto ci alleviò, un po’ tutti, dall’imbarazzo, proferendo con schiettezza che pure lui dovette ricorrere sovente ad un confessore per esprimergli quanto «come uomo» gli costasse sacrificio penoso mantenersi immune da tentazioni di quel genere. Però, su ciò che don Berto disse si sarebbe potuto giudicare con doppio significato.
Se da una parte si poteva avere avuto la sensazione che rispondendo nel modo, si fosse calato anima e corpo nel calore epico e nostalgico creato da quei compagni di un tempo; dall’altra, non è pure da escludere che don Berto avesse voluto richiamarsi, con la constatazione «come uomo» ad una lotta fratricida.
E oggi potrei confermare, avendolo di seguito e anche anni dopo risentito, che lui intendeva definire la Resistenza una Guerra Civile. E che tale suo giudizio non prendeva sostanza soltanto dalla lettura della Bibbia, ma dalla sua stessa esperienza che fece in qualità di Sacerdote (Cappellano Militare). Chissà, quante e quali confessioni avrà - con misericordia - ascoltato...
Nonostante ci sia stato Claudio Pavone con il suo «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», che uscì nel 1991; purtroppo tale contenuto non è stato ancora acquisito. Specie nella Sinistra. E mi vergogno. Anzi, di recente si è manifestata la tendenza, persino, a riabilitare posizioni mistificanti. Prese di posizione lontane dalla verità storica. Tutto pareva che si fossero superati schemi e preconcetti arcaici. Per fortuna, pochi giorni fa, ho ascoltato di Silvio Ferrari un commento ad un testo sulla Resistenza. E per le cose che ha detto è stato - a mio parere - come se nei nostri abitacoli angusti si fosse aperta finalmente una finestra per fare entrare luce e aria pulita.
Mi sembra, quindi, che si dovrebbe ripartire dal comportamento umano del sacerdote don Berto. Dalla sua sensibilità, da quel suo modo di essere onesto con tutti, se si vuole capire senza demagogia e senza strumentalizzazioni politiche, il passato, ma anche il presente.
Occorre, pertanto, avere il coraggio di rendere esplicito - in queste occasioni commemorative - un elemento essenziale sul quale troppo, con timidezza, ci si è soffermati. La Resistenza armata fu in parte notevole espressione - anche se non esclusiva - di una gioventù che si era formata (come per Buranello) all’interno della cultura dominante del Fascismo. Fu proprio questa gioventù, che nella parte più appassionata e civilmente impegnata, provò nel biennio 1943-1945 a costruire una visione del mondo del tutto nuova. Ma, la storia si aperse su altri orizzonti. La «guerra fredda» contribuì ad alternarne i valori...
Don Berto di quel suo vissuto, che non fu costellato soltanto di luci - come spesso rammentava - andava orgoglioso. E si venne a sapere che negli incontri ufficiali tenuti in Curia difese sempre il suo operato da insinuazioni e mai minimizzò e mai nascose il suo impegno spirituale di Cappellano dei partigiani.

Fu uno dei suoi tanti meriti che lo innalzano tuttora come un autentico cristiano e sacerdote esemplare.

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