Controcultura

Viaggio nel Paese islamico che ha estirpato l'islamismo

I jihadisti scompaiono, le moschee sono controllate dallo Stato e per le strade girano meno donne velate che in Italia

Gian Micalessin

da Bukhara (Uzbekistan)

Calcinata dal sole, arsa dalla calura, imprigionata dalla canicola la Fortezza sembra una reliquia abbandonata. Una spoglia del passato disertata dagli uomini, accantonata dalla storia. Un po' lo è. Del suo passato, dei suoi antichi splendori, ed orrori, è rimasto poco. Le sue torri, le sue mura panciute appaiono - nella ricostruita e restaurata perfezione - più una replica ben cesellata che un'identità storica. In Uzbekistan, del resto, ricomporre i passati non è né semplice, né politicamente conveniente. Soprattutto se l'archiviazione dei 70 anni di fedeltà al modello sovietico rischiano di offrire spazio, come nei primi anni '90, al dilagare dell'islam radicale. Ma la coesistenza dei secoli di Gengis Khan e dell'islam con i 70 anni di modello sovietico è complessa anche urbanisticamente. Tutt'attorno alle icone della storia svettano i palazzoni di città figlie più dell'ansia livellatrice di Lenin e Stalin che non delle tradizioni precedenti. Città come Bukhara dove vialoni alberati, squadrate corsie d'asfalto e grigie colate di cemento circondano la Fortezza degli emiri facendola quasi sembrare un'isola del passato contrapposta al presente. Una sensazione che perdura anche oltre i bastioni, al di là del portale d'ingresso e sopra la rampa che conduce all'antico cortile del trono. Tra quelle torri e quei muraglioni, svuotati di qualsiasi antica vestigia il tempo sembra cancellato, offuscato. E allora la memoria riempie il vuoto, resuscita i racconti di quel giugno 1842 quando nel piazzale antistante la fortezza - come racconta Peter Opkirk nel saggio Il Grande Gioco - «due uomini in cenci erano inginocchiati nella polvere... Avevano le braccia legate strette dietro la schiena ed erano in condizioni pietose: sporchi emaciati, il corpo coperto di piaghe, capelli barba e vestiti brulicanti di pidocchi. Poco lontano due buche scavate di fresco. ...I due uomini inginocchiati ai piedi del carnefice nel rovente sole meridiano erano ufficiali britannici. Per mesi l'emiro li aveva tenuti in una buca buia e puzzolente sotto la cittadella d'argilla, con topi e parassiti come soli compagni ...Il primo dei due a morire in quella mattina di giugno sotto gli occhi dell'amico fu Stoddart... Conolly, partito volontario per Buchara nella speranza di ottenere la libertà del collega era finito anche lui nell'orrido carcere dell'emiro e, qualche istante dopo Stoddart, era stato a sua volta decapitato».

Visitando questa fortezza e quasi impossile non vedere nell'uccisione del colonnello Charles Stoddart e del capitano Arthur Conolly - per volere dell'emiro Nasrullah Khan - il precedente storico della decapitazione degli ostaggi documentata nei filmati dello Stato Islamico. Eppure 172 anni dopo la memoria di quella decapitazione ha poco da spartire con il presente dell'Uzbekistan. L'islam intollerante e fanatico qui è stato estirpato. Ma non solo. Da Bukhara a Kiva, da Samarcanda a Tashkent sembrano esser stati cancellati anche gli aspetti esteriori della religione di Maometto. Moschee e madrasse simbolo della storia di questo paese sono diventate semplici reliquie del passato, svuotate di qualsiasi simbologia e pratica religiosa per far posto a venditori di souvenir, vestiti e paccottiglia folkloristica. Nelle strade si vedono meno donne velate che a Roma e Milano, le barbe senza baffi, identità dell'estremismo wahabita, sono una rarità e neppure le barbette rade - effige di tanti islamici - sono molto frequenti. Persino il Santo mese del Ramadan, vera piaga per i viaggiatori infedeli costretti altrove ad adeguarsi ai ritmi del sacro digiuno, appare qui assai meno rigoroso e coinvolgente. Eppure queste immagini di vita quotidiana evidenti a qualsiasi viaggiatore sembrerebbero contrastare non solo con la storia del Paese, ma anche con le cronache del presente. Le più recenti, arrivate dalla Turchia, raccontano che almeno uno degli attentatori suicidi entrati in azione all'aeroporto di Istanbul il 28 giugno scorso era un militante dello Stato Islamico originario dell'Uzbekistan. Un militante legato a quel Movimento Islamico dell'Uzbekistan che nel 2014 - dopo aver combattuto per oltre un ventennio tra le fila di Al Qaeda in Afghanistan e Pakistan - ha giurato fedeltà al Califfato di Al Baghdadi.

Ma sotto la superficie di un paese dove l'islam ha perso la sua dimensione sociale per ridursi a pratica privata esistono ancora forze islamiste pronte a risvegliarsi? Per capirlo bisogna riandare a quel fatidico 31 agosto 1991 quando Islom Karimov, allora presidente della Repubblica Uzbeka dell'Urss, dichiara l'indipendenza, si candida alle presidenziali del dicembre 1991 e le vince con l'86 per cento dei voti. Una percentuale non ancora all'altezza del 91,9% conquistato nel gennaio 2000 o del 90,39 fatto registrare in quelle del 2015. Secondo le classifiche sulla libertà formulate annualmente dalla Freedom House statunitense, questo quarto di secolo di potere assoluto avrebbe trasformato l'Uzbekistan in uno dei 4 angoli più oppressivi del mondo assieme a Corea del Nord, Somalia e Siria. Una classifica di cui sinceramente si stenta oggi a percepire la fondatezza. Soprattutto girando per città e campagne dove un regime indubbiamente non liberale e - stando ad altre analisi - fisiologicamente corrotto - gode però d'indubbi consensi. E dove l'assenza di evidenti squilibri sociali contribuisce a offrire un'immagine di stabilità.

Certo, se si guarda al passato la storia è diversa. La fama di despota illiberale, attribuita a Karimov, è soprattutto legata alla repressione dei movimenti islamisti. Tutto inizia nei primi anni '90 nel cuore di Fargana, una valle lunga oltre 300 chilometri diventata allora il tessuto connettivo dei vari gruppi radicali attivi in Uzbekistan, Kirgisistan e Tagikistan. Lì, l'ideologo Tahir Yuldashev e Juma Namangani, un ex paracadutista dell'Armata Rossa riscopertosi musulmano combattendo in Afghanistan, fondano il Movimento Islamico dell'Uzbekistan. Sotto gli occhi ancora distratti di un Karimov intento a cementare il potere a Tashkent dilaga una rivolta islamista che - dopo aver assunto il controllo di villaggi e città della valle di Fargana - punta ad imporre la sharia in tutto l'Uzbekistan. Da quel momento l'iniziale indifferenza di Karimov si trasforma in una guerra senza quartiere. Mentre l'esercito riconquista il controllo della Valle e costringe Tahir Yuldashev Juma Namagani a riparare in Afghanistan e Pakistan, dove moriranno combattendo per Talebani e Al Qaeda, in Uzbekistan scatta una feroce repressione che in pochi anni elimina qualsiasi presenza islamista. I metodi non sono propriamente quelli previsti dalla Carta dei Diritti dell'Uomo. Dal 1991 al 2004 almeno 7000 sospetti terroristi scompaiono nelle patrie galere senza, in molti casi, farvi più ritorno. Sono anni spietati scanditi da esecuzioni extra giudiziali, torture ed eliminazioni eseguite con metodi degni degli antichi emiri. Quello più raccapricciante viene sperimentato su Mizakomil Avazov e Khusnuddin Olimov, due militanti del gruppo terrorista Hizb ut Tahrir che nel 2002, stando a un documento del Dipartimento di Stato Usa vengono bolliti vivi nella prigione di Karakalpakstan.

La vera pietra miliare della guerra all'islam radicale condotta dal regime di Karimov è però la Legge sulla libertà di coscienza e sulle organizzazioni religiose varata nel 1998. Una legge che prevede libertà di religione e di culto solo per le associazioni riconosciute dal governo, permette la restrizione di qualsiasi attività in contrasto con la sicurezza nazionale, vieta gli argomenti religiosi nelle scuole pubbliche e preclude alle organizzazioni private l'insegnamento religioso. Da allora le uniche moschee autorizzate sono quelle dove predicano imam riconosciuti dal governo, non esistono più, se non clandestinamente, madrasse affidate a insegnanti islamisti e vengono vietati tutti i partiti d'ispirazione islamista. L'articolo 14 della stessa legge che proibisce l'utilizzo di simboli e paramenti religiosi in luoghi pubblici è la spiegazione più evidente della sparizione da vie, piazze e pubblici uffici di barbuti vestiti alla wahabita o di donne addobbate con quei niqab, burka o chador tanto diffusi in altri paesi islamici.

Una legge certamente liberticida, ma indispensabile per arginare quell'ondata jihadista che trent'anni fa minacciava di travolgere il Paese.

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