"Per 15 anni ho licenziato centinaia di lavoratori: ora assumo solo detenuti"

L'imprenditore Giuseppe Ongaro apre un'azienda direttamente dentro il carcere di Verona: "Ho 68 dipendenti, compresi 7 condannati per omicidio: sono i migliori". Professione tagliatore di teste, come George Clooney nel film Tra le nuvole. Poi la svolta

"Per 15 anni ho licenziato 
centinaia di lavoratori: 
ora assumo solo detenuti"

La prima volta che Giuseppe Ongaro bussò alla porta di una prigione aveva appena 16 anni. «Sono nato a Verona, nel popolare rione di San Zeno, dove gli ex galeotti non mancavano. Uno di loro mi disse che un suo compagno di cella era un fenomeno a pitturare con l’aerografo. Così un pomeriggio d’estate mi presentai al cancello d’ingresso del Campone, una tetra caserma austriaca fatta costruire nel 1847 dal feldmaresciallo Radetzky e poi trasformata in casa di pena. Mostrai al piantone la mia bicicletta e gli chiesi se fosse possibile farla dipingere di azzurro metallizzato dal recluso. Anziché mandarmi a quel paese, andò a chiamare l’ispettore. Fu comprensivo: “Lasciala qui”. Tornai a riprendermela dopo 20 giorni. Stupenda, di un colore mai visto prima. Mi costò 1.500 lire».
Nel 1972 si poteva fare. Persino i penitenziari, allora, erano a misura d’uomo. Ma anche oggi che tutto è maledettamente più complicato, nulla è impossibile per un testardo che ha una fiducia incrollabile nei propri simili. Segnato da quel contatto col mondo carcerario, Ongaro ha perciò preso una decisione di cui pochi imprenditori sarebbero capaci: assume soltanto detenuti. Anzi, per essere più precisi, ha piantato la sua azienda, la Lavoro & futuro Srl, direttamente dentro la prigione di Verona (che nel frattempo è stata trasferita in un mostruoso falansterio inaugurato nel 1994 in periferia) e sta progettando di aprire altre sedi anche nelle case circondariali di Vicenza, Trento, Ferrara e Castelfranco Emilia.
Una conversione maturata nel 2005 e che ha dell’incredibile, perché Ongaro aveva dedicato con successo i precedenti 15 anni della sua vita alla professione esattamente opposta: tagliatore di teste. Avete presente il viaggiatore professionista Ryan Bingham, interpretato da George Clooney nel film Tra le nuvole, che vola da un capo all’altro degli Stati Uniti per licenziare in tronco i dipendenti delle aziende travolte dalla crisi? Ecco, quello faceva il benefattore dei carcerati: disboscava le piante organiche col machete. «Il massimo lo toccai in un’industria elettronica del Friuli: 480 licenziati in un colpo solo. Perciò non mi descriva come un santo, mi raccomando. Non lo sono, non lo sono mai stato». In realtà, a riprova che gli uomini sono migliori di come appaiono, poi lavorò per 18 mesi d’intesa con i sindacati per ricollocare tutto il personale in esubero in altri stabilimenti della regione, tranne due lavoratori per i quali proprio non saltò fuori il posto. «Ma un’altra volta, nel Milanese, feci piazza pulita in cinque stabilimenti di uno stesso gruppo, sempre nel ramo elettronica: in tutto 250 licenziati, che restarono sul lastrico dalla mattina alla sera», non si dà pace.
Ongaro, laureato in statistica all’Università di Padova, ha provato sulla propria pelle quanto sia importante avere un lavoro. Suo padre, grande invalido di guerra reduce dai lager nazisti, morì a 56 anni. «Io a 12 già ero nei campi a tirar giù mele, pere e uva e a 16, prima d’andare al liceo scientifico salesiano, all’alba scaricavo i sacchi di farina nei panifici, reclutato dalla cooperativa facchini». Così come ha provato il rischio di ritrovarsi con un figlio in prigione: «Oggi ha 26 anni, fra i 15 e i 18 è stato un hacker. Viveva di notte e dormiva di giorno. Violava i siti di enti, istituti di credito, industrie, sia pure senza far danni, così, per il semplice gusto di vincere una sfida col computer». Ma siccome è dal male che spesso nasce il bene, oggi il giovanotto è uno dei più ricercati esperti di smagliature nei sistemi di sicurezza informatici, «e lo pagano tantissimo», tira un sospiro di sollievo il padre.
Anche l’imprenditore, prima di mettersi ad assumere carcerati, si faceva strapagare: un tot per ogni testa tagliata. «In genere si trattava di una percentuale fino al 10% calcolata sull’aumento del margine lordo che l’azienda realizzava dopo la ristrutturazione». Allora, e sono ormai trascorsi quasi dieci anni, Ongaro abitava in una casa indipendente e poteva contare su non meno di 7.500 euro di stipendio al mese. Oggi vive in un appartamento di 80 metri quadrati al primo piano di un condominio e si accontenta di 1.500 euro mensili. Ma gli leggi in faccia che è sereno.
Che cosa le è successo?
«Mi sono chiesto se quello che facevo rispecchiava lo scopo per cui mi alzavo la mattina. Non lo rispecchiava. Così mi sono concesso 14 mesi sabbatici per riorganizzare la mia, di vita. Una ricerca di nuovi equilibri per giungere a una forma di armonia personale».
Perché gruppi importanti chiamavano proprio lei, come killer?
«Il consulente è uno psicoterapeuta d’azienda. Il suo unico valore consiste nella capacità di costringere la proprietà di un’impresa a pensare. È difficile, mi creda, fermare industriali che corrono dalla mattina alla sera per fare fatturato».
Da chi ha imparato a tagliare teste?
«Da grandi maestri. Ricordo in particolare un ex direttore generale della Zanussi. E un consulente della Fiat, magnifico. Persone con le palle quadrate, ma che conservavano una grande umanità, fuori dalla norma».
Prendeva lezioni private?
«Li conoscevo ai corsi di formazione. Ne ho seguiti in Francia, in Scozia e in Italia».
Non le restava addosso il dolore dei licenziati?
«No, perché un’azienda con 800 dipendenti, che si trovava nella necessità di ristrutturare, o chiamava me ad attuare determinate politiche oppure avrebbe dovuto mandarli a casa tutti e 800. Se uno vuol guardarla, quella è la realtà. Un calcolo matematico. Non c’è dietro alcuna filosofia».
Ma allora che cosa non le piaceva più di quel lavoro, visto che non le procurava grandi rimorsi?
«Lo scadimento dei rapporti umani. L’unico obiettivo, fine a sé stesso, era quello di fare soldi. Colpa della Borsa: ha imbarbarito il capitalismo. Che a me piace molto, intendiamoci, perché è meritocratico. La mia formazione laica l’ho avuta con i giovani del Pli, mi considero figlio di Giovanni Malagodi. Ma non tutto si può misurare col denaro».
Perché ha deciso di assumere proprio i detenuti?
«Perché sono convinto che si debba lavorare per il bene della società. Tu vivi in funzione degli altri. Una volta rinchiusi, ai detenuti nessuno ci pensa più, la galera diventa una pattumiera. Quindi dal punto di vista egoistico la scommessa era molto interessante».
È stato difficile entrare in carcere?
«Quattordici mesi di documenti e carte bollate. Siamo controllati da tre ministeri e da quattro sindacati».
Come mai parla al plurale?
«Senza il mio socio Edgardo Somma, che è stato un imprenditore informatico e poi ha lavorato nel mondo della finanza, non avrei potuto farcela».
Quanto fattura Lavoro & futuro?
«L’anno scorso 550.000 euro. I pochi utili li reinvestiamo. Per legge non possiamo esigere dallo Stato circa 80.000 euro di credito d’imposta, quindi siamo in pari».
Passa molte ore dietro le sbarre?
«In media una quindicina la settimana. Ma quattro nostri dipendenti sono là dentro tutti i giorni a istruire, dirigere, controllare».
Numero degli assunti?
«Siamo arrivati a 68. Da febbraio li turniamo, perché non c’è lavoro per tutti».
Su quanti detenuti?
«La prigione ha una capienza di 250. Invece sono 950 e qualche settimana arrivano a 1.000. Ho sul tavolo oltre 350 domande di assunzione. Faccio quel che posso. Il penitenziario non è attrezzato per il lavoro. Se sono riuscito ad aprirci una fabbrica, lo devo solo alla sensibilità del precedente direttore, Salvatore Erminio, e del suo successore, Antonio Fullone. Mi hanno consentito di ricavare 2.500 metri quadrati di laboratori nei corridoi esterni, intercapedini piene di animali morti che inizialmente erano state concepite per un carcere di massima sicurezza».
In base a quale contratto assume i detenuti?
«In base alla legge Smuraglia, un fantastico compromesso storico fra destra e sinistra che nessuno utilizza perché fissa dalla a alla zeta che cosa è possibile fare e dunque non consente trucchi o scappatoie. Li metto in regola come operai di secondo livello, settore industria, assunti a tempo indeterminato».
Non li può licenziare.
«Soltanto quando escono dopo aver scontato la pena. Ma cerchiamo di riassumerli con una cooperativa esterna».
Quanto guadagnano?
«Mediamente dai 380 ai 540 euro netti, dipende dall’attività».
Pochissimo.
«È la legge. Lavorano 6 ore al giorno. Un netturbino, per 8 ore, prende 920 euro».
E se non rispettano le regole contrattuali?
«Li licenzio. Però non è mai capitato. E sì che me ne sono passati più di 300 sotto le grinfie. Magari capita che non li lascino più venire in officina per ragioni di sicurezza, perché hanno combinato qualcosa in cella. Ma sul luogo di lavoro sono irreprensibili».
Come la chiamano?
«Giuseppe. I meridionali, Bepì. I cinesi, boss. I rumeni e gli africani, capo. Dipende dalle etnie, almeno una dozzina».
Che cosa producete?
«Di tutto: 16 milioni di pezzi l’anno. Magliette e gadget pubblicitari. Articoli promozionali per aziende, fiere ed eventi. Parti meccaniche e schede elettriche. Filtri per i forni delle autocarrozzerie. Siamo il secondo produttore europeo di profumatori per la casa, deodoranti per auto e antitarme, 1,3 milioni di pezzi l’anno. Sono nostre le rastrelliere portabiciclette che vede nei centri storici: ce le ha comprate persino il Comune di Catania. Una famosa azienda del Modenese ci ha affidato le mattonelle a mosaico, una lavorazione di grande precisione, 72 diverse composizioni di colore con tesserine in pietra o in vetro. Dall’officina meccanica, diretta da due maestri carpentieri, escono anche box per cavalli, cancelli, gazebo. Abbiamo un laboratorio d’informatica dotato di linea Adsl, una concessione assai difficile da ottenere nei penitenziari, dov’è vietata qualsiasi comunicazione con l’esterno: 12 operatori inseriscono col computer i dati per società terze».
Cioè?
«Le Poste, per esempio, ci avevano appaltato l’archiviazione delle ricevute di ritorno delle raccomandate. Purtroppo è sopraggiunta la crisi. Prima, quando si potevano spedire a 0,10 centesimi di euro l’uno, imbustavamo milioni di cataloghi, calendari, rosari. Ma la tariffa agevolata è stata soppressa e ci sono venuti a mancare di colpo 6 milioni di pezzi».
E come fa a non fallire?
«Riconverto, m’invento qualcosa di nuovo. Ora ho avviato la produzione delle bat box, le casette per i pipistrelli che mangiano le zanzare. Piuttosto complesse, devo dire. Fra meno di un mese partiremo con i pannelli solari a marchio “Casa circondariale”».
Che attivismo.
«Un giorno mi sono accorto che in carcere c’erano due serre e 3.000 metri quadrati di terra incolta. Ho chiesto aiuto a Damiano Maccadanza, titolare dei vivai Verdevalle. Ci ha portato 3.000 piante da giardino, 2.000 da frutto e 3.000 gelsomini, che cresciamo fino a otto mesi. Vede bene che di italiani brava gente ce n’è ancora tanta, in giro».
Quale dei suoi operai ha la pena più lunga da scontare?

«Ne ho 7 condannati per omicidio. I migliori».
Addirittura.
«Sono i Giuseppe Ongaro che un giorno hanno avuto i cinque minuti di pazzia e hanno superato il limite. Ma dopo cinque minuti sono ritornati a essere Giuseppe Ongaro».
Com’è la vita là dentro?
«Due ore d’aria al giorno e le rimanenti 22 in una cella di 4 metri per 2,5, con dentro quattro persone. Tolti letti a castello, armadietto, tavolo, sedie e fornello, fanno 52 centimetri di passeggio a testa. I miei operai sono privilegiati. Tra scendere e salire, stanno fuori dalla gabbia 8 ore. Se s’ammalano, hanno la visita medica d’urgenza».
Che cosa attende un ex carcerato?
«Se non ha scelto di fare il delinquente abituale, cerca un lavoro. Che non troverà. Il momento peggiore è l’uscita dal carcere. Nessuno gli comunica il giorno. Un pomeriggio, all’improvviso, le guardie gli dicono: “Te ne vai”. Fuori non trova nessuno ad attenderlo. D’inverno alle 17 c’è già buio. Si trova nella nebbia, al freddo, senza sapere dove andare. Con l’associazione Redium, acronimo di Recupero dignità umana, mi sono sentito in dovere di mettergli in mano un kit: pochi euro per mangiare, una scheda per telefonare dall’ultima cabina sopravvissuta vicino alla casa circondariale, gli indirizzi dove passare la notte, i biglietti per l’autobus».
Risponda da imprenditore: con tutta la manodopera disponibile sul mercato, soprattutto extracomunitaria, per quale motivo un’industria dovrebbe assumere proprio un ex detenuto?
«Per sensibilità. Mi conforta sapere che su 2.000 aziende europee certificate per il rispetto della responsabilità sociale d’impresa, ben 840 sono italiane».
Quando sente la frase: «Bisognerebbe rinchiuderli e buttare via la chiave», lei come reagisce?
«In alcuni casi concordo perfettamente. Quattro semi, una vanga e lasciarli su un’isola deserta. Non sono per la redenzione a tutti i costi».
Però ne redime tanti.
«Ho sentito il bisogno di restituire un po’ di ciò che la vita mi ha regalato. Lo faccio per me stesso. Se questo coincide col benessere altrui, mai congiuntura fu più felice. Quando sei circondato da gente che sta meglio, per osmosi stai meglio anche tu. Nessuno meglio di me sa che un uomo senza lavoro muore. In Cina il vocabolo lavoro non esiste: se uno vive, lavora. Non mi scambi per maoista, resto liberale».


Lei quante ore lavora al giorno?
«Questa è una domanda cattiva. Quelle che servono».
Cioè?
«Ieri 15».
Andrà in pensione?
«Non dipende da me».
(506. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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