Vietato rinnegare la "religione" umana dell’individuo

Il futuro e le prospettive del giornalismo visti da Vittorio Macioce: il valore dello scetticismo

Vietato rinnegare la "religione" umana dell’individuo
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Non avrei mai immaginato, da ragazzo, di scrivere in quello spazio verticale alla sinistra di chi legge, proprio sotto la testata, lì dove all’origine di questa avventura c’era la firma di Indro Montanelli. Non ho mai smesso di sentirmi un impostore. Che ci faccio qui? Me lo chiedo spesso. Alla fine la mezza risposta che mi sono dato, oltre allo stipendio chiaramente, è che sto cercando di mantenere una promessa fatta proprio a lui, a quel signore a cui non riuscivo a dare del tu che un pomeriggio di troppi anni fa mi fece una carezza sulla guancia e mi disse: non cambiare mai.

Non ho mai capito davvero cosa intendesse. Cosa non dovevo cambiare? Non perdere la passione per questo mestiere e, lo confesso, non è stato facile. Non era solo quello. C’è l’idea che il giornalista non è solo un passacarte, ma cerca di portare il lettore dentro il suo sguardo, non spaccia verità assolute, ma interpreta la realtà in base ai suoi valori, alla sua cultura, alla sua storia, alle sue esperienze. Non è un robot e non ha neppure l’onniscenza di Dio. È uno che cerca risposte e lo fa in buona fede, senza cercare alibi e senza raccontare e raccontarsi palle. Il patto con il lettore è di fidarsi dei miei occhi. Non sono puri, qualche volta sbagliano, ma non hanno mai preso soldi per guardare qualcosa con gli occhi di altri. La responsabilità è mia e non è in vendita.

C’è poi la forma, che non è mai irrilevante. No, non sto parlando dei vestiti, di giacche e cravatte, di quelle francamente me ne frego. È il desiderio di scrivere a modo mio, con uno stile che sia riconoscibile anche se non ci metti la firma. È lì, se ci pensate, il vero spirito aristocratico di Montanelli, condito di principi a volte antichi e un pizzico di anarchia. Nessun direttore qui al Giornale mi ha mai detto come dovevo scrivere, in che modo o a comando. Non ho mai scritto nulla che non condividevo. Ho rispettato la linea editoriale, perché se la rinneghi allora è giusto che te ne vai, qualche volta sono rimasto in silenzio, ma in tanti anni è accaduto di rado. Mi è stato lasciato lo spazio per andare controcorrente e per tutto questo non posso che dire grazie. Non so in quanti giornali sarebbe avvenuto, perfino in quelli che si fanno sempre vanto di non avere «padroni». Alla fine tutte le linee editoriali seguono interessi ben precisi. L’importante è non nasconderli.

C’è alla fine quello che conta di più. Si invecchia e si cambia. Ci sono cose che a vent’anni sentivo in modo diverso. La mia «religione» è rimasta invece la stessa. È non vedere l’altro come un nemico. Non guardare al prossimo come a una minaccia. Non rinnegare l’umano. Come gli Jedi di Guerre Stellari penso che la paura ti faccia cadere nel lato oscuro della forza. È così che si comincia a preferire, in modo ossessivo, la sicurezza alla libertà. È stare lontano dal potere, rinunciando a poltrone e prebende, perché ti senti solo un giornalista. Ecco, per me il Giornale è ancora questo e spero lo sarà nei prossimi cinquanta anni. È credere che ognuno ha il diritto di cercare la propria felicità.

È quella buffa idea che le libertà fondamentali siano qualcosa di universale, anche se poi sai che non è vero. È lo scetticismo verso il pensiero canonico dei tanti. È non seguire per forza le masse. È stare da solo, a costo di ritrovarti con un marchio d’infamia sul petto.

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