Un applauso alle spagnole di Venezia

Forse il mondo non sarà salvato dai ragazzini (e nemmeno dall’embrione, a quanto pare). Meno male però che almeno questa volta la Biennale di Venezia è stata salvata da due donne, María de Corral e Rosa Martínez (spagnole, per giunta: a scorno degli italiani che ancora si illudono nella sarcastica battuta di Gioacchino Rossini secondo cui gli iberici ci avrebbero comunque sempre consentito di non apparire come «l’ultimo popolo del mondo»). Le signore curatrici hanno infatti tirato al sugo una mostra gradevole (evviva!) e intelligente (evviva!) quale a Venezia non si vedeva da anni: sistemando un coro disparato di linguaggi ed esperienze estetiche internazionali in una più che accettabile parafrasi dello «stile contemporaneo».
Meglio non fare paragoni con gli sbracamenti «di sinistra» e le varie retoriche tardo-sessantottine - inneggianti a «platee della umanità» e «dittature dello spettatore» - delle edizioni precedenti. Essi si impongono da soli per la qualità degli autori e per i contenuti trattati senza dimenticare quasi mai i diritti della forma. Ciò che rende attraente la mostra veneziana è, vedi un po’, proprio il «garbo femminile» adoperato nel mettere in scena l’aria del tempo. La de Corral e la Martinez hanno messo l’accento - senza sicumera e partito preso - sul valore dell’ironia e dell’umorismo nel commentare, trasfigurandoli esteticamente, i terribili mutamenti in corso (razza, storia, religione, sesso e via dicendo). Ed hanno scelto nomi giusti in un raccordo di passato e presente stilisticamente efficace: dai pittori Philip Guston a Francis Bacon, allo squisito video-disegnatore William Kentridge; dal giovane plasticatore tedesco Tomas Schütte ad altri due coetanei come il francese Bernard Frize e lo spagnolo Juan Uslé. Sono solo alcuni degli eccellenti protagonisti della mostra «L’Esperienza dell’arte» curata da María de Corral.
Ma una analoga sorpresa - per controllo, qualità e coerenza di stile - è garantita dalla esposizione «Sempre un po’ più lontano» ideata dalla Martinez dove si sono viste quasi sempre solo ammucchiate confusionarie per non dire altro (e qui vale la pena di ricordare il gigantesco Ufo immaginato da Mariko Mori, l’opera buffa in video-performance del gruppo russo Blue Noses, e gli emozionanti montaggi sugli «spettri urbani» dell’americana Donna Conlon). In un concerto così bene temperato non mancano purtroppo anche le tiritere protestatarie ultra-femministe (Guerrillas girls) quando dovrebbe essere ormai chiaro che in campo artistico e altrove c’è rimasto ben poco di maschilista (se non addirittura di maschile).
Si avverte poi anche la clamorosa mancanza di qualche serio artista italiano che avrebbe potuto essere scelto proprio tra chi doppiò già con largo anticipo e tanta ironia il capo delle famose «avanguardie» e «postavanguardie» (Giulio Paolini e Gino De Dominicis, per citare).

Le curatrici non l’hanno fatto, e hanno fatto male (tanto più che i pochi italiani presenti in mostra purtroppo abbassano il tono: Monica Bonvicini e Francesco Vezzoli docent). Nessuno è perfetto: e le «spagnole di Venezia» non fanno eccezione. Ma alle signore si perdona questo e altro quando, come nel caso di questa Biennale, ti fanno tirare sospiri di sollievo.

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