Benazir: "Resto a sfidare le bombe"

L’ex premier sfuggita giovedì a un sanguinoso attentato in Pakistan si conferma figlia di una dinastia, i Bhutto, votata alla politica ma anche al sacrificio

Benazir: "Resto a sfidare le bombe"

Che non sia solo figlia di suo padre e della dinastia dei Bhutto, come si è sempre malignamente biascicato negli ambienti diplomatici, basterebbe a dimostrarlo la dignità eroica ma non demagogica delle dichiarazioni di ieri. Sopravvissuta per caso a una carneficina, certamente favorita da complicità nei servizi, ma sostanzialmente ideata da Al Qaida e dai talebani che hanno numerose e potenti basi in Pakistan, Benazir Bhutto ha detto ieri che si può morire ma non ci si può arrendere, dunque resterà nel Paese a rischiare la morte ogni giorno per mano del terrorismo islamico. Scusate se è poco per una signora che ha lasciato un esilio di privilegio e benessere, e ditemi se non sembrano volgari le accuse lanciate e le ombre ancora proiettate sulla figura di questa donna eccezionale che bene quel che l’aspetta, sa di essere destinata a sacrificare la sua vita per una speranza di libertà.
Oggi è amata e rispettata da inglesi e americani, e già per questo guardata con sospetto tra gli europei un po’ politically correct e un po’ sottomessi all’Islam. È stata sempre odiata, e ora lo è ancora di più dai fondamentalisti, perché è una donna femminista, perché è un simbolo di democrazia laica. La sua famiglia è stata decimata in questa lotta, un po’ come i Nehru Gandhi in India; suo padre, Zulfiqar Ali Bhutto, primo non militare a guidare il Paese, fu detronizzato dal generale Zia nel 1977 e impiccato due anni dopo. I figli, ragazzi educati a Oxford e Harvard, si divisero. Benazir ci rimase cinque anni nelle prigioni di Zia, in isolamento, poi l’esilio; Murtaza fuggì in Afghanistan, guidò un’organizzazione di resistenza, rientrò nel Paese appena eletto deputato, nel 1993, tre anni dopo fu assassinato, misteriosamente, come si usa dire. L’altro fratello, Shahnawaz, fu trovato morto in casa, a Cannes, nel 1985, sempre misteriosamente. Toccò alla donna della dinastia raccogliere l’eredità gloriosa e rischiosa del padre adorato, ma forse era così stabilito dall’adolescenza di Benazir, che per la politica, e la sfida, sembrava nata.
Non solo, quando viene eletta la prima volta premier, nel 1988, a trentacinque anni, è talmente bella ed elegante, negli abiti tradizionali ma con moderazione, che l’effetto mediatico internazionale è enorme, come le speranze di chi l’ha eletta. Il generale Zia è morto, lei è tornata accolta in trionfo, è la prima donna nel pianeta musulmano a conquistare il primato.
Sarà un’esperienza durissima, sia la prima, che finisce nel 1990, che la seconda, dal 1993 al 1996. Il pretesto per la destituzione manu militari è la campagna micidiale di accuse di corruzione e appropriazioni indebite per milioni di dollari rivolte al marito, Azif Sardari, che finisce in carcere per otto anni. Viene incriminata anche Benazir, poi finisce in niente, lei lascia il Pakistan e va a vivere a Dubai. Nessuna delle antiche accuse ha trovato riscontri nei processi, ma il marchio di signora e signor “dieci per cento” li perseguita a lungo, sia quando è al potere Nawaz Sharif, che quando gli subentra Pervez Musharraf. Pensare che il matrimonio era stato di convenienza, lei si piaceva single, ma per i costumi del Pakistan sarebbe stato veramente troppo.
Certo, di errori, quando governava, la Bhutto ne ha commessi molti, scontentando gli alleati americani. Ma era un’impresa titanica. Seguì la dottrina terzomondista e socialista che un po’ nasce dai sensi di colpa e un po’ dall’educazione della classe alta e istruita nell’Occidente, era a caccia di consenso, non combatté la corruzione che in quei Paesi è il sistema, insomma non fece meglio di altri governi democratici che si sono alternati ai golpe militari rendendo il Pakistan povero e instabile. Fece come gli altri la non allineata. Ma patì anche il rapporto privilegiato che gli Stati Uniti scelsero di mantenere con i militari. Prima lo fecero con ragione, c’era l’Unione Sovietica da contrastare, l’Afghanistan invaso, insomma serviva un esercito anticomunista e con le armi nucleari come alleato. Poi il terrorismo islamico negli anni di Bill Clinton non fu, stoltamente, considerato un pericolo, e represso per tempo. Finì che nel 1999 Musharraf arrivò come un salvatore e dettò i patti.
Oggi il Pakistan che Benazir, un po’ invecchiata, appesantita, provata, trova al ritorno dall’ennesimo esilio è pieno di basi di Al Qaida, pieno di talebani che attaccano le truppe Nato, di terroristi di ogni specie, e chissà che non ospiti anche Osama bin Laden e i suoi scherani.

Il governo americano alla fine è riuscito a imporre un accordo di presunta spartizione del potere, ma l’accoglienza riservata alla ex premier non lascia nutrire molte speranze. Resta il coraggio straordinario di una donna.

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