Bersani alla frutta: «Pronto ad allearmi con Fini»

Roma«Era tanto tempo fa», sottolinea a buon diritto Antonio Di Pietro. E nel tempo, come diceva James Russell Lowell, «the foolish and the dead alone never change their opinion», solo i cretini o i morti non cambiano opinione.
Di Pietro, che cretino non è, ha legittimamente cambiato opinione. Un bel po’, a occhio e croce, visto quello che scriveva «tanto tempo fa», nel lontano 1994, nel pregevole testo di studio per scuole superiori dal titolo «Educazione civica con elementi di diritto ed economia» (edizioni Larus). In sintesi: la normativa che permette la pubblicazione sui giornali di intercettazioni telefoniche andrebbe rivista «con serietà», perché la Costituzione non consente che la «libertà e segretezza delle comunicazioni» sia violata per «mettere in piazza i discorsi privati dei cittadini», magari a scopi di pura «delegittimazione». Nel ’94, insomma, l’allora pm Di Pietro nutriva forti perplessità sulla legittimità dell’uso via stampa delle intercettazioni. Quelle stesse che oggi, se la legge in discussione ne vietasse la pubblicazione, lui promette di diffondere urbi et orbi via web da un sito di Italia dei valori appositamente aperto in Belgio, perché «non ci stiamo a vivere in un regime che impedisce la libera circolazione delle informazioni». E quindi «pubblicheremo tutti i dialoghi proibiti, che non potranno essere diffusi e sottoposti all’attenzione dell’opinione pubblica perché la legge lo impedirà». Il Di Pietro 2010, insomma, è pronto a lottare sempre e in ogni dove perché ogni singolo cittadino venga a conoscenza di quanto si dicono al telefono quelli che incappano nel grande Orecchio intercettatore.
E il Di Pietro 1994? Eccolo: «In questo clima di asfissiante ricerca dello scoop, della notizia clamorosa da sbattere in prima pagina, ogni indiscrezione, vera o presunta, circa le attività dei magistrati è da anni strumento di lotta politica, di esaltazione o di affossamento di singoli o partiti», scriveva a pagina 297 del citato testo. E per questa ragione «le intercettazioni telefoniche riguardanti numerosi cittadini italiani, che per una ragione o per l’altra erano considerati personaggi di attualità, sono state a più riprese utilizzate dalla stampa e consegnate agli occhi di tutti con lo scopo immediato di “informare” ma anche con un intento, spesso non celato, di delegittimare i propri avversari». Delegittimare, avversari. E ancora: «In questo modo milioni di persone hanno potuto conoscere le conversazioni private di privati cittadini che nulla avevano a che vedere con le indagini in corso e che comunque si prestano ad equivoci o interpretazioni dettate dalla evidente differenza che esiste tra scritto e parlato, specie telefonico». Ma c’è una ulteriore e «ben più grave» questione: «A quale scopo - si chiede Di Pietro - le conversazioni telefoniche intercettate devono diventare di pubblico dominio, tutte indistintamente? È giusta una legislazione che consente a chiunque di accedere a notizie circa la vita privata del cittadino? Infatti, se la Costituzione prevede, in determinati casi, che sia violata la libertà e la segretezza delle comunicazioni, è anche vero che concede questa facoltà solo a pubblici funzionari per fini d’indagine, non certo per mettere in piazza i discorsi privati dei cittadini». E conclude augurandosi un «necessario» intervento legislativo che «riveda con serietà tutta questa delicata materia».
Cambiato idea? «Ma era tanto tempo fa», obietta, interpellato, Antonio Di Pietro. «Per quel che penso delle intercettazioni mi rimetto a quanto ho dichiarato, adesso e allora».

Ma non c’è una differenza tra adesso e allora? Rilette le proprie parole del ’94, l’ex pm taglia corto: «Non è certo una buona ragione per fare quella legge bavaglio. E comunque non rilascio interviste al Giornale». Clic.

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