Un bimbo in provetta mette il lettore con le spalle al muro

Gli opposti egoismi di una coppia di fronte alla fecondazione artificiale e le domande a cui non sappiamo dar risposta

Nel vangelo di Matteo, Cristo deve difendersi dalle tre tentazioni del deserto: dopo un digiuno di quaranta giorni e quaranta notti, viene avvicinato dal diavolo che lo sfida a sfamarsi trasformando le pietre in pani, a buttarsi dal pinnacolo del tempio perché gli angeli lo salvino, a prosternarsi di fronte a lui per conquistare tutti i regni del mondo. Dostoevskij nel commentare questo celebre episodio biblico nell’altrettanto celebre episodio del grande inquisitore nei Fratelli Karamazov ebbe a scrivere: «Credi tu che tutta la sapienza riunita sulla terra potrebbe immaginare qualcosa di appena somigliante, per potenza e profondità, a quelle tre tentazioni?... Perché in queste tre tentazioni è come condensata e profetizzata tutta la storia ulteriore dell’umanità e sono indicate le tre forme nelle quali convergeranno poi tutte le insolubili e tradizionali contraddizioni della natura umana nel mondo intero...». Queste insolubili contraddizioni sono facili da estrapolare dall’episodio biblico: sono il messianismo sociale, il dubbio e l’orgoglio. Sono il ribaltamento quasi meccanico delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Da duemila anni ci dibattiamo all’interno di quelle tre domande, a volte rifiutiamo la tentazione, a volte vi soggiacciamo. I romanzi, spesso, servono per formulare meglio quella profezia, per incistare l’attualità nel solco antico.
Ecco che veniamo a Vita della mia vita, ultimo romanzo dello scrittore pordenonese Gian Mario Villalta, pubblicato da poco più di una settimana da Mondadori (pagg. 216, euro 16,50). La vicenda inizia con un viaggio in macchina, durante la vigilia di un Natale del nostro tempo. Nell’abitacolo vi sono un uomo, Giò, e una donna, Marilina. La donna è incinta e, proprio mentre la macchina corre sull’autostrada che da Trieste porta a Pordenone, le acque si rompono. L’uomo accelera per giungere il più presto possibile all’ospedale ma un ingorgo, il primo di una serie di intoppi, sviste e smarrimenti, rende quel viaggio più difficile e lungo di quello che all’inizio si sospettava. Un viaggio non voluto, frutto del caso, che permette ai due protagonisti di ricapitolare le loro vite, di riviverle con un sapientissimo montaggio autoriale che porta il lettore per mano attraverso diversi momenti esistenziali. Così, cominciamo a capire che la situazione non è semplice come sembrava, che dietro l’apparente naturalità di una gravidanza e di una coppia di insegnanti come tanti, si cela un segreto.
Veniamo a sapere che il figlio che Marilina porta in grembo, alla vigilia di Natale, il figlio che probabilmente, visto che la sera incombe, nascerà verso la mezzanotte, non è il figlio di Giò, diminutivo di Giuseppe, e non è nemmeno il figlio di un altro uomo, se per uomo intendiamo una identità precisa: è figlio invece di una fecondazione artificiale eterologa. Di un seme donato da qualche ignoto, e segretissimo, donatore. Marilina, prima di conoscere Giò, sulla soglia dei quaranta anni e con la prospettiva di vedere rintoccare per l’ultima volta il suo orologio biologico, aveva deciso di intraprendere il difficile iter che porta all’inseminazione. Esami, dubbi, paure, frustrazioni e una operazione, quasi clandestina, in una clinica della Repubblica Ceca. Giò, che ama Marilina di quell’amore tardivo che a volte è il regalo più bello della mezza età, viene a sapere della gravidanza della donna a cose fatte. Non fa in tempo a rallegrarsi della presunta paternità che lei gli spiega tutto. Lui non è il padre, o almeno, non è il padre biologico.
Da questo momento, l’idillio dell’amore lascia il posto al dramma, o alla vera e proprio tragedia. Due visioni del mondo si scontrano: l’egoismo maschile e l’egoismo femminile. Fisicità contro astrazione, matriarcato contro patriarcato, visti proprio nella loro estensione più incisiva, il possesso legale dei figli. Con due tipi diversi di orgoglio, di dubbio, di messianismo sociale. E anche con due tipi diversi di fede e di speranza. Non di carità, perché di carità in Villalta ce n’è poca: è una virtù che tra le sue pagine manca quasi del tutto.

Le domande che il libro si pone sono forti: che tipo di società vogliamo? Che tipo di famiglia vogliamo? Fino a che punto l’orgoglio può travolgerci? Fino a che punto il dubbio può corrodere la nostra fede e renderci estranei a noi stessi? Fra biologia e cultura, in quale posizione intermedia si situerà il nostro bisogno sociale di istituzioni? E come possiamo trovare una mediazione se le due posizioni di partenza, quella maschile e quella femminile, sono così diverse?
Abbiamo di fronte un libro scritto bene, che con sapienza ci introduce in un universo ambiguo, dove non si trovano risposte, ma che ancora una volta mette di fronte a tentazioni secolari. Le spalle contro il muro, siamo costretti a porci le domande che ci costituiscono da sempre e che formano allo stesso tempo la più recente attualità.

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