Il biotech italiano riparte e spera nei capitali stranieri

Monica Marcenaro

Bravi, anzi bravissimi. I ricercatori italiani che lavorano nelle biotecnologie non hanno certo meno talento dei loro colleghi europei e americani. Eppure il settore fatica a crescere. Partito buon ultimo rispetto al resto d'Europa, ha recuperato nell'ultimo quinquennio andandosi a collocare al quarto posto nel vecchio continente, dopo Germania, Regno Unito e Francia nonostante conti su appena 163 società contro le 525 tedesche, le 455 inglesi e 225 francesi. Ha pure registrato un balzo del fatturato complessivo (più del 18% nel 2004 rispetto all'anno precedente), ma sconta e continua a scontare la mancanza di risorse adeguate per crescere. Una piccola mano l'hanno data alcuni fondi pubblici come il Far (per le agevolazioni alla ricerca) o il Fit (per l'innovazione tecnologica), ma la nota dolente è l'assoluta mancanza di private equity e venture capital specializzati nel settore. Non siamo neppure attrezzati per attrarre i fondi privati esteri e il canale della Borsa è distante.
A conferma del clima poco favorevole al biotech italiano è l'esperienza dell’azienda comasca Gentium che la scorsa primavera si è quotata all’Amex, in Usa, oppure di Bioxell alla Borsa di Zurigo.
Le biotecnologie sono quell'insieme di processi attraverso i quali si utilizzano materiali biologici (enzimi, cellule o organismi) per produrre beni e servizi in diversi settori: cura e salute (biotecnologie rosse), agroalimentare (verdi) e industria e ambiente (bianche). E nessuno mette in discussione che i nostri siano scienziati a cinque stelle nel campo delle «rosse». Francesco Micheli, che insieme a Umberto Veronesi ha fondato Genextra, holding nata per sviluppare il gene dell'invecchiamento P66 e che investe in start-up biotecnologiche, dichiara apertamente che il biotech in Italia si trova in situazione paradossale: «Non abbiamo strutture adeguate in queste ricerche, ma abbiamo una quantità di ricercatori bravi e quotati sul piano internazionale, come ben sanno i lettori delle maggiori riviste scientifiche del mondo. Sono convinto che l'America sia proprio qui da noi, grazie al livello di eccellenza degli scienziati».
Maria Grazia Roncarolo e Alessandro Aiuti, direttore e ricercatore dell'Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica di Milano, prima dell'estate sono volati negli Usa su invito dell'American Society for gene Therapy per parlare al Congresso e convincerlo ad aumentare i finanziamenti. Con tutti i centri di ricerca all'avanguardia che ci sono Oltreoceano, sono stati chiamati proprio loro perché fanno parte di un gruppo tra i più avanzati al mondo. Sempre prima dell'estate l'università di Pittsburgh ha annunciato che costruirà a Palermo, da qui al 2010, una specie di succursale del suo Medical Center interamente dedicato alle biotecnologie mediche. Che siano scienziati preparati e geniali lo dimostra anche il fatto che ben 30 farmaci innovativi sono in sperimentazione clinica, concentrati soprattutto tra oncologia, immunologia e farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale, mentre altri 29 sono in fase preclinica (sperimentazione in vitro o animale). Del primo gruppo, ben 3 molecole sono in fase 3 (dopo il prodotto viene messo sul mercato) e 13 in fase 2.
La ricaduta di questa crescita della ricerca di base è un proliferare di piccole e medie aziende. L'ultimo rapporto tracciato da Blossom Associati per Assobiotech, l'Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie che fa parte di Federchimica, ne ha contate 163, quasi la metà nate dopo il 2000, con un fatturato di circa 3 milioni di euro, pari allo 0,2% del Pil. Si tratta per larghissima maggioranza di piccole e medie imprese, anche se sono le 30 medio-grandi (di cui 19 sussidiarie di multinazionali estere) a realizzare il 70% dei ricavi e a occupare oltre il 60% del personale (8.400 addetti in totale). Sono Pmi nate intorno a un'idea vincente, nicchie di mercato e di business difficilmente appetibili per la grande impresa. In molti casi si tratta di spin-off a seguito di dimissioni di linee di ricerca ad alto rischio non riconducibili al core-business della multinazionale che le ha «tagliate», oppure a spin off di matrice universitaria. Caratteristica qualificante del settore è la forte concentrazione geografica: in Lombardia e Lazio viene realizzato l'80% del fatturato del settore.
Ma non basta fare ricerca, per Assobiotech si devono creare esempi di successo, ovvero aziende e prodotti sviluppati in Italia e riconosciuti a livello mondiale come successi italiani.

Sarebbero il volano per attrarre capitali stranieri: nel 2005 i fondi di venture capital e private equity hanno investito nel biotech italiano sei milioni di euro, contro gli 1,4 miliardi dell'Europa e i 3,3 miliardi di dollari degli Usa.
(1 - Continua)

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