Blitz di Israele nello Yemen per salvare famiglia ebrea

Per loro è volato l’ultimo “tappeto magico”, li ha traghettati dalla paura allo stupore, li ha proiettati dalle ombre d’un angusto mondo antico allo scintillio d’acciai e cristalli dell’aeroporto di Tel Aviv. Sono atterrati giovedì e per un giorno Israele ha rivissuto le emozioni dell’operazione “tappeto magico” del 1949 quando gli aerei alleati decollati da Aden riversarono nella terra promessa 49mila ebrei yemeniti. Stavolta sono solo dieci, una madre spaesata, un marito ed un amico sbigottiti e i sette figli da due a 12 anni della famiglia Ben Yisraelis, sette marmocchi dagli occhi sgranati ancora intabarrati negli stracci del passato, mantelli e veli islamici per le fanciulle, austeri e minuscoli completi grigio topo per i maschietti.
Per farli arrivare lì Israele ha montato l’ennesima operazione segreta, ha mosso gli specialisti dell’agenzia ebraica, il Mossad e gli uomini migliori d’aviazione ed esercito. Tutti insieme, tutti in gran silenzio, tutti pronti al peggio pur di strappare dalle grinfie di Al Qaida l’ebreo Said e la sua famiglia. Tutto inizia lo scorso dicembre a Raida, la sperduta cittadina dello Yemen caposaldo dell’ultima dimenticata comunità ebraico cassidica del paese. Sono 280 in tutto, sono gli ultimi ebrei del paese e ufficialmente godono della protezione personale garantita dal presidente Alì Abdullah Salah. A dicembre neppure quella suprema tutela sembra più proteggerli dalle minacce degli Uthi, un gruppo di terroristi locali legati ad Al Qaida. Prima è la volta di Moshe Yaish Nahari, un esponente della comunità di Raida, padre di nove figli, massacrato a sangue freddo davanti a casa. Subito dopo scatta l’offensiva di Gaza e l’odio divampa.
Per Said Ben Yisrael, capo della comunità di Raida, finire nel mirino è quasi automatico. A farglielo capire contribuisce la bomba a mano esplosa nel cortile di casa qualche settimana fa. Le schegge volano ovunque, ma miracolosamente non feriscono nessuno. Said sa che i miracoli non si ripetono. Assieme ad una cinquantina di terrorizzati correligionari chiude casa e fugge nella capitale Saana. A quel punto Moshe Vigdor, direttore generale dell’agenzia ebraica incaricata di monitorare le comunità a rischio, è già sul chi vive e pronto ad intervenire. Prima entrano in azione le cellule in sonno del Mossad in Yemen, individuano Said e la sua famiglia, li avvicinano, cercano di convincerli a lasciare il paese. Quella è forse la parte più complessa e rischiosa dell’operazione. La setta cassidica yemenita è parte integrante dei gruppi ultra-ortodossi che non riconoscono lo stato d’Israele. Un’interferenza rischia di far saltare l’operazione e mettere a rischio gli agenti israeliani.
Il piano studiato per settimane si chiude tra mercoledì notte e giovedì con un accelerazione fulminea. «Hanno detto che bisognava partire e non abbiamo potuto prendere niente, abbiamo chiuso casa e abbiamo seguito quegli uomini», racconta la piccola e stralunata Esther alle telecamere delle televisioni israeliane. Dietro se la ride soddisfatto Moshe Vigdor.

«Sono entusiasta perchè abbiamo concluso un’operazione veramente delicata, ma anche consapevole di dover stare ancora all’erta - ammette il direttore generale dell’Agenzia ebraica - seguiamo da vicino la situazione della comunità ebraica yemenita e da quanto vediamo il nostro lavoro laggiù non sembra affatto concluso». Nelle prossime settimane, insomma, nuovi “tappeti magici” potrebbero spiccare il volo.

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