Il capo di Al Aqsa: «L’Anp dovrà fare i conti con noi»

Anche Blair parla di negoziati difficili. E i fondamentalisti ora ammorbidiscono i toni su Israele

Gian Micalessin

da Jenin

Dieci telefonate, cinque cambi d’appuntamento e alla fine eccolo, Zakaria Zubeidi, l’eterno capo delle Brigate Al Aqsa di Jenin. O almeno, l’unico ancora vivo. Ti aspetti un piccolo esercito. Invece c’è lui solo. Ti aspetta come un pascià su una sedia di plastica sfondata e il caffè in mano mentre tre mocciosi lo guardano dai mattoni di un palazzo in ricostruzione. Sorridente, irridente, strafottente.
«Volevi me o una parata?». Il muso annerito, ricordo della prima bomba esplosagli in mano, è quello di sempre. In più ha un buco nella spalla e uno nella schiena. «Forse è stato un anno fa, sai qui i giorni sono tutti uguali. Una notte apro gli occhi vado alla finestra e sotto vedo tre israeliani. Aspettano me. Salto giù dall’altra parte, sento la pallottola nella schiena ma mi tengo in piedi, se cadi sei finito. Scarico la pistola addosso a quello che mi ha sparato fin quando non va giù, poi attraverso la città. Quando ti cercano devi passare i tre o quattro anelli dell’accerchiamento sennò sei fottuto. Corro a perdifiato, salto da una casa all’altra finché non ci vedo più. Quando riapro gli occhi ho solo amici attorno. Come vedi, sono ancora qua».
Il gatto dalle nove vite è appena tornato dalla caserma di polizia. Ha votato in anticipo, perché anche l’uomo più ricercato di Jenin in fondo è un poliziotto. «Perché non dovrei? Sono un combattente con la paga da poliziotto, che male c’è? Perché non devo intascare anch’io i miei 1.500 shekel al mese? L’Anp è di tutti i palestinesi, chi incassa la paga non è obbligato a pensarla allo stesso modo. L’Anp crede alla pace di Oslo, io credo in un principio più alto, difendo la libertà dei miei cittadini. A Jenin mi conoscono tutti. Se sono ancora vivo e libero vuol dire che lo faccio bene. Non sono un criminale, perché non dovrei meritarmi i loro soldi?».
L’inconfutabile logica di Zakaria Zubeida vale anche per le armi che il povero presidente Mahmoud Abbas vorrebbe riposte e riconsegnate. «Riposte le abbiamo riposte, io da più di un anno non sparo a nessuno. Consegnarle è un altro discorso. Con lo Stato palestinese e la pace sarò il primo a farlo. Ma per ora gli israeliani sono ancora qui, e nessuno ha voglia di farsi trovare disarmato. Se ti chiedo di smettere di scrivere, tu mi consegni la penna? Così noi abbiamo smesso di sparare, ma le armi le teniamo. Oggi sono andato a votare e ho mostrato la fondina vuota. Tutti hanno detto: guardate, con le elezioni anche Zakaria ha obbedito, ha lasciato le armi a casa. Invece, sorpresa, eccola qui la mia Smith & Wesson, legata al polpaccio. Lo dite voi: la democrazia è anche apparenza... Apparentemente io ho votato disarmato».
Sulle elezioni, Zakaria Zubeidi ha una visione molto personale. «Due settimane fa non ci sarei andato neanche per sogno, ma poi ho capito. Hamas faceva sul serio, approfittava delle nostre divisioni per far fuori Fatah. Allora io e tanti altri abbiamo deciso di fargliela pagare. Sembrano forti, indivisibili e potenti, ma non sono più quelli di un tempo. Agli inizi degli anni ’90 gli israeliani uccisero Abu Jihad e tutti i nostri comandanti, così Abu Ammar dovette accettare la pace di Oslo. Con loro usano la stessa tattica. Hanno fatto fuori tutti i loro capi e tutti i loro combattenti. L’hanno trasformato in un gruppetto di colombe, hanno bisogno delle elezioni per sopravvivere. Ma sono colombine ambiziose cresciute alle nostre spalle. Sono sopravvissuti grazie alla nostra protezione e ora vogliono il potere. Ma scopriranno che Fatah è come una fenice, capace di risorgere dalle proprie ceneri».
Neppure la minaccia americana di non riconoscere un governo con Hamas soddisfa «faccia di carbone». «Certo, grazie America, per loro siamo come i pachistani e gli iracheni. I loro amici israeliani invece speravano che ci sparassimo addosso ai seggi. La faremo vedere ad entrambi, voteremo. Ma i conti li faremo dentro Fatah. Dopo il voto riuniremo la sesta conferenza del partito e cambieremo gli organi interni. Le vere riforme arriveranno, ma le faremo internamente». Neanche Barghouti lo convince troppo. «Per far spazio ai suoi era pronto a buttar via il partito e a fondarne uno chiamato Futuro. Poteva chiamarlo Vera Fatah, e tutti avremmo capito, ma forse, poveretto, in cella è mal consigliato».
Solo quando gli chiedi quanto a lungo potrà sopravvivere, Zakaria ripone il suo ghigno. «Be’, me lo chiedo anch’io. Ma dopo i miei primi sette anni di galera ho giurato di non tornare dentro a nessun costo. Sono ancora vivo e libero perché Dio mi protegge, perché decido da solo, perché non partecipo mai a battaglie perse, e perché agisco e sparo molto in fretta. Mesi fa mi son visto dietro un furgone pieno di facce straniere, ho pensato sono morto, sono le forze speciali, così ho svuotato il caricatore e son fuggito. Poi ho saputo che era una delegazione francese in visita a Jenin... Certo, a 29 anni non si può vivere così. Ci penso. Ci penso la notte quando dormo da solo con il mitra e i caricatori, e vedo tutti i volti dei miei amici morti. Allora mi sento carne morta anch’io. Meglio, mi dico, farla finita subito. Prendo il mitragliatore, vengo a sedermi quassù. Aspetto gli israeliani.

Li chiamo... Venite a prendermi, grido, sono qui, tutto solo, tutto per voi. Ma quando li voglio, loro non ci sono mai. E quando la notte svanisce e il sole risorge io torno lo Zakaria di sempre. Sempre pronto a ricominciare».

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