Di stabile c’è soprattutto una cosa: il gruppo di potere che da anni gestisce e spartisce la torta dei finanziamenti pubblici ai teatri stabili. Diciassette enti che ogni anno recapitano al ministero dei Beni culturali la domanda per incassare la propria parte milionaria. Nel Fus (Fondo unico per lo spettacolo) del 2007, la cifra destinata ai teatri stabili (si chiamano così perché dovrebbero promuovere il teatro stabilmente sul territorio) è di 19.290.000 euro. Ma il tesoretto totale è più del doppio (circa 50 milioni) perché i teatri stabili sono gestiti anche da Regioni, Province e Comuni che mettono nella cassa altrettanti milioni, ma in cambio hanno il potere di nominare i vertici, presidenti e Cda. Ma l’elargizione di soldi pubblici non è di per sé garanzia di qualità, perché il meccanismo messo a punto nel 1999 dall’allora ministro della Cultura veltroniana Giovanna Melandri (e dal capo di gabinetto Oberdan Forlenza, attuale assessore di Bassolino e presidente del Teatro Stabile di Roma) è puramente aritmetico: dato un tot di spesa, ecco il tot di soldi, senza premi per i più bravi o esclusioni per i peggiori. Il ministero come il Bancomat.
Un privilegio per le compagnie degli stabili che li avvantaggia («in modo sleale» lamentano le compagnie private) in un mercato già in difficoltà. Anche perché se i teatri stabili sono privilegiati, tra di loro ci sono quelli che lo sono di più. Nell’ambiente lo chiamano l’«asse del male», cioè il cartello fra i teatri di Torino, Roma, Napoli, Genova e l’Ert (Emilia Romagna Teatro). Insieme rappresentano una fetta abbondante del finanziamento pubblico e, come se non bastasse l’aiuto pubblico, si aiutano anche fra loro, scambiandosi i cartelloni e gli spettacoli: tu mi compri due miei spettacoli e io te ne prendo tre, e via così. Anche perché per ottenere i soldi pubblici bisogna garantire un certo numero di giornate di recita l’anno, e comprandoseli a vicenda si danno man forte nel raggiungere la quota dovuta. Così nel cartellone dello Stabile di Torino di questa stagione troviamo Le cinque rose di Jennifer prodotto dallo Stabile di Napoli e Filumena Marturano prodotto dallo Stabile di Roma. Che a sua volta ospita La menzogna dal Teatro Stabile di Torino e L’anima buona di Sezuan dallo Stabile di Genova. Che a sua volta ospita Ritter, dene, voss prodotto dal Teatro Stabile di Roma, Gomorra dallo Stabile di Napoli e Molly Sweeney di Emilia Romagna Teatro. E via così. Un altro trucco è questo. Siccome per legge i teatri stabili devono produrre il 50 per cento della stagione e produrre costa, coproducono. Ovvero, mettono la propria firma su spettacoli che semplicemente ospitano, pagando le recite come a una compagnia esterna. I furbetti del palchetto.
Ma la politica chiude un occhio perché ai piani alti dei teatri stabili siedono uomini con precise casacche partitiche, gradite a chi li dovrebbe controllare. La maggior parte tendente al rosso. A presiedere il Teatro di Roma c’è ancora Oberdan Forlenza, veltroniano, attuale assessore ai lavori pubblici della Campania. Suo direttore artistico è Giovanna Marinelli, ex braccio destro di Veltroni al Campidoglio (nota come «la zarina»). Fino a pochi mesi fa a Torino, prima di lasciare dopo una serie di polemiche per sprechi e costi enormi, dettava legge Walter Le Moli, espressione della sinistra chiamparinana. Ora a Torino Le Moli non c’è più, ma in compenso lo troviamo al Teatro di Parma. Sulla poltrona di direttore artistico del Teatro Stabile di Genova, invece, siede Carlo Repetti, ex assessore provinciale, centrosinistra. A dirigere a Napoli non c’è più Roberta Carlotto, moglie di Alfredo Reichlin (storico esponente del Pci-Ds-Pd), ma il giovane Andrea De Rosa, allievo di Franco Quadri, potentissimo critico teatrale della Repubblica. Mentre all’Ert di Modena impera il direttore artistico, di fede erraniana (Vasco Errani è governatore Pd dell’Emilia Romagna), Pietro Valenti. Rossi i velluti di sipari e poltrone. E rossi pure i direttori.
Poi ci sono i conflitti di interessi fra impresari e direttori artistici, che spesso sono la stessa persona. Come allo Stabile Metastasio di Prato, diretto da Federico Tiezzi. Capita che ospiti nel suo cartellone spettacoli prodotti dalla Compagnia Lombardi-Tiezzi. La sua. Oppure ci sono le affettuosità teatrali. Come quelle che legano Alessandro Gassman, direttore del Teatro Stabile dell’Aquila, che spesso scrittura gli spettacoli della «Società per attori», la stessa con cui ha lavorato per anni.
Teatri stabili e mercato altrettanto stabile, anzi blindato. Godendo dell’aiuto pubblico, i teatri stabili possono pagare cachet alti, aggiudicandosi quindi gli attori star. Di conseguenza i teatri di provincia - esclusi dal cartello che tiene alti i compensi - restano a bocca asciutta di grandi nomi. Non c’è meritocrazia che valga. In Sicilia ci sono due teatri stabili, a Catania e Palermo, ma quello catanese, pur essendo molto più radicato nel territorio con 13mila abbonati e 200mila presenze l’anno (dalla sua scuola di teatro sono usciti grandi attori come Turi Ferro e Leo Gullotta), riceve molti meno soldi rispetto a Palermo, circa un decimo. Forse perché l’elargizione delle giunte locali guarda più alle fratellanza politiche che alla qualità dei cartelloni. Dove non arriva il pubblico può però arrivare il privato, se si cerca bene, come sta facendo a Catania Pietrangelo Buttafuoco (presidente del teatro) che sta cercando di coinvolgere Andrea Vecchio, imprenditore minacciato dalla mafia, e Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia famoso per la resistenza al pizzo di Cosa nostra.
Sui bilanci dei teatri, spesso in rosso, pesa anche un altro fattore. I soldi stanziati dagli enti locali vengono anticipati dalle banche, che praticano interessi molto alti e di fatto speculano sui ritardi (enormi) con cui Comuni e Regioni erogano i fondi. Un’altra voce che affossa i conti è quella del personale, spesso in eccesso. E molte volte finisce che i costi fissi superino i costi di produzione, anche qui tutto a danno dell’arte.
E poi.
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