Cassazione: è estorsione sfruttare il lavoro nero

Impiegate sottopagate e ricattate. Pena durissima: tre anni e mezzo

Attorno all’imprenditore che sfrutta il lavoro nero c’è sempre il «giustificazionista» di turno che alza il dito e dice: «Sempre meglio della disoccupazione...». Così anche il peggiore «negriero» passa quasi per un «benefattore» che, tutto sommato, ti dà la possibilità di portare qualche soldo a casa; e poco importa che non ti assicuri la minima garanzia, che non ti riconosca i diritti basilari, che ti sfrutti senza pietà.
Ma ora la Cassazione alza il tiro e, per la prima volta, ha confermato la condanna per estorsione a tre anni e sei mesi contro un imprenditore che teneva alle sue dipendenze dipendenti in nero. In situazione analoghe nessun giudice aveva mai incriminato l’imputato per estorsione, ricorrendo invece a fattispecie di reato molto meno gravi. Di solito tutto si sistemava con una multa, neanche tanto salata. Di galera neanche a parlarne. Ma ora la giurisprudenza sembra, opportunamente, aver cambiato tendenza. Come dimostra il caso esaminato dagli ermellini del Palazzaccio che si sono trovati davanti a datori di lavoro nel cui vocabolario aziendale non esisteva la parola «contratto», ma solo termini come «minaccia» e «intimidazione». A chi provava ad «alzare la testa», sempre la stessa frase urlata a muso duro:_«O così, oppure ti sbatto fuori! Di gente disposta a rimpiazzarti ne trovo finché ne voglio...».
La Cassazione ha così confermato a carico di tre datori di lavoro sardi di Nuoro il verdetto con il quale la Corte di Appello di Cagliari (contrariamente ai giudici di primo grado che li avevano assolti) li ha giudicati colpevoli di estorsione infliggendo a ciascuno tre anni e mezzo di carcere.
Nelle due società dei tre imprenditori, le dipendenti - tutte donne - erano costrette ad «accettare trattamenti retributivi non corrispondenti alle prestazioni effettuate» e subivano «condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti». Il tutto in un clima nel quale i datori «ponevano le dipendenti in una situazione di condizionamento morale, in cui ribellarsi alle condizioni vessatorie equivaleva a perdere il posto per via di una situazione in cui la domanda di lavoro superava di gran lunga l’ offerta». Ad avviso della Suprema Corte in questa situazione si configura il reato di estorsione, protrattasi per oltre dieci anni.


«Non ci troviamo dinanzi a nessun caso di estorsione - era la tesi difensiva rigettata dalla Cassazione -, perché le lavoratrici avevano accettato quelle condizioni senza ricorso ad alcuna violenza». Ma per la Suprema corte «l’accettazione di quelle condizioni non fu libera perché condizionata dall’assenza di altre possibilità di lavoro». Di qui la validità dell’accusa di estorsione.

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