Chabon, un hard boiled servito con molto ghiaccio

In «Il sindacato dei poliziotti yiddish» la terra promessa viene trasferita in Alaska

La migliore interpretazione del nuovo, spettacolare romanzo di Michael Chabon, Il sindacato dei poliziotti yiddish (Rizzoli, pagg. 398, euro 19, traduzione di Matteo Colombo) l’ha data forse l’israeliana Abigail Nussbaum in un commento apparso su Internet, quando l’ha definito «un libro di viaggi», e al tempo stesso una perfetta guida turistica a un mondo che non c’è: il distretto federale di Sitka, l’inospitale ritaglio di Alaska - una striscia di costa lunga 240 chilometri - che nel mondo immaginato da Chabon è diventato il rifugio degli ebrei sopravvissuti all’Olocausto e alla distruzione, nel 1948, del neonato stato di Israele. Mondo immaginario, bizzarro ma non impossibile, dato che il piano di popolare l’estremo Nord degli Stati Uniti con gli ebrei fuggiti dall’Europa era una delle opzioni prese seriamente in esame dal governo americano nel 1940.
Chabon descrive con lucida fantasia quel mondo che non è mai esistito, ma che avrebbe potuto esistere se fosse avvenuto un fatto apparentemente insignificante come quello descritto a pagina 352: l’investimento da parte di un tassista ubriaco del politico che nella storia reale era stato il più fiero oppositore dell’insediamento degli ebrei nell’estremo Nord...
Da quel semplice fatto, mai verificatosi nella realtà, nasce un mondo completamente diverso, dove la Manciuria è uno stato sovrano e Berlino è stata distrutta da un’atomica nel 1946. Chabon guida il lettore a conoscere tutta la storia e i segreti accumulatisi in sessant’anni in quel mondo alternativo, fino al fatidico 2007 in cui si svolge il racconto, alla vigilia (questione di settimane) della temuta Restituzione, che l’1 gennaio 2008 metterà fine al distretto federale, riconsegnando gli ebrei alla diaspora.
Quello di Chabon è un romanzo dalle tinte noir, ispirato ai classici degli anni ’40. Ma la sensibilità del narratore è assolutamente moderna (o meglio ancora postmoderna), e altrettanto assolutamente ispirata. «D’inverno, il cielo dell’Alaska sudorientale è un Talmud di grigio, un commento infinito su una Torah di nuvole, pioggia e luce moribonda». Sotto questo cielo opprimente si svolge una trama di complotti, di mosse e contromosse più complessa della partita lasciata interrotta sulla scacchiera di Mendel Shpilman, lo Tzaddik Ha-Dor, il messia promesso, la cui brutale esecuzione in uno squallido alberghetto di Sitka dà l’avvio al romanzo. Una partita che ne simboleggia un’altra, la cui posta è altissima: forse la salvezza degli Ebrei, forse - secondo l’occulto desiderio di alcuni - la fine del mondo. Meyer Landsman, poliziotto in crisi, emulo nelle movenze e nel linguaggio dei personaggi di Raymond Chandler e Dashiel Hammett, attaccato in ugual misura al dovere e alla bottiglia, segue con tenacia la traccia dell’assassino, finendo per trovarsi coinvolto in un piano terroristico che è il contrappasso, nel mondo creato da Chabon, dell’11 settembre 2001. Con lui faranno splendida squadra il collega Berko Shemets e l’ex moglie, Bina Gelbfish, divisi fra il dovere professionale e la necessità di infrangere le regole, se vogliono scoprire l’assassino di Mendel e fermare l’orologio dell’Apocalisse.
Il sindacato dei poliziotti yiddish è un libro potente, costellato di scene e personaggi memorabili, scritto con una verve incredibile, e ricco di sorprese, che siano il titolo di un film, come Cuore di tenebra di Orson Welles, o un simbolo (l’amuleto di un pesce, che rimanda chiaramente all’Esegesi di Philip K. Dick), o i continui giochi di parole; per fare solo un esempio: Meyer chiama la pistola Sholem, «pace», che in inglese è peace. E pièce, «pezzo», dalla stessa pronuncia, è il nome gergale della pistola, nei romanzi hard boiled...).
Con il suo stile visivo, iperrealista e al tempo stesso evocativo, Chabon è riuscito a creare un mondo nuovo, con la sua storia, le sue peculiarità e la sua lingua. Una creazione complessa che però si lascia gustare come qualcosa di assolutamente naturale. Ed è qui il miracolo narrativo compiuto dall’autore: l’aver saputo nascondere la complessità nell’apparente semplicità, la vertigine nella linearità. È un libro che si fa godere fino in fondo, e si vorrebbe ricominciare a leggere appena girata l’ultima pagina.
Prendete le pagine che Chabon dedica alla comunità dei Verbover e al loro leader, il rabbino Heskel Shpilman, padre del ragazzo ucciso. O la scena dei funerali, che apre il capitolo 23. Scene che strappano un applauso. Indimenticabili i protagonisti, Meyer e Bina, e il mezzosangue Berko, così come altri personaggi solo apparentemente secondari, primi fra tutti l’ineffabile «esperto di confini» Itzik Zimbalist e il misterioso Hertz Shemets, cuore nascosto della vicenda.
L’autore sostiene di aver scritto il libro spinto dalla voglia - natagli dalla lettura di un manuale di conversazione yiddish - di costruire un mondo ebreo in cui quell’idioma, e non l’ebraico, fosse la lingua di uso comune. È un motivo tanto bizzarro da risultare geniale.

Inevitabile il paragone con un altro romanzo di ucronia (di mondi paralleli, in altre parole) scritto da un autore ebreo: Il complotto contro l’America pubblicato da Philip Roth nel 2005, romanzo apparentemente più «realistico», ma che di fronte a Il sindacato dei poliziotti yiddish semplicemente sparisce, rivelandosi, pur con le sue belle pagine, un marchingegno narrativo male assemblato, che non convince come invece convince, e affascina, l’assurdo mondo inventato dal più giovane Michael Chabon, un libro che fra cent’anni verrà ricordato fra i capolavori della letteratura americana di questi tempi.

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