La concorrenza? È in pensione

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Va bene, è urgente, l’abolizione dell’Irap sul lavoro. Bisogna ridurre il cuneo fiscale che in Italia è fra i più alti del mondo e su ogni cento euro di salario netto porta a 139 il costo del lavoro per le nostre imprese. Ma persino un marziano che si ritrovasse da noi per caso (forse per errore) capirebbe subito dove è capitato. Si troverebbe, infatti, nel più Bel Paese del globo, nel quale però sette residenti su dieci oltre i cinquant’anni sono in pensione. Dove, se non in Italia, ci si va a quell’età?
Altro che le mitiche «casalinghe di Voghera» di Arbasino: gli artigiani di Mestre vanno al sodo con semplici calcoli come questo. Se parliamo di competitività dobbiamo tenere conto del cuneo fiscale che la impiomba. E nella differenza fra costo del lavoro per l’impresa e retribuzione netta per il lavoratore, troviamo che una pesante componente è costituita dal «cuneo contributivo». La cui attuale ampiezza, necessaria per il funzionamento della nostra sicurezza sociale, mantiene elevato in maniera abnorme il costo del lavoro e penalizza la competitività del sistema economico. Un pesante handicap al quale si aggiungono tutti gli altri, che alcuni scoprono soltanto adesso.
La spesa pensionistica resta intorno al 15 per cento del Pil, molto superiore alla media europea: all’opposto delle prestazioni per la tutela della famiglia e degli stati di disoccupazione. La speciale generosità che ha caratterizzato per lungo tempo il nostro sistema previdenziale consiste anche in un’età pensionabile alquanto inferiore a quella degli altri maggiori Paesi industriali, a partire dal riconoscimento (anomalia tutta italiana) delle pensioni di anzianità agli «over 50», non di rado nei più begli anni della vita. Un meccanismo che ha generato iniquità, perché - a proposito di concorrenza - favorisce gli «insider» del sistema (chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori) e discrimina le generazioni più giovani a vantaggio di quelle... anziane, ma non tanto «Old and Rich» dicono gli americani. Queste prestazioni, dato un invecchiamento della popolazione come quello attuale, con previsioni per l’Italia di vedere crescere da circa 25 nel 1995 ad oltre 39 nel 2020, rispetto a 33 della media europea, il numero di anziani per cento abitanti in età attiva, hanno evidentemente perso le loro caratteristiche di copertura contro il rischio di sopravvivenza: che diventa (per fortuna!) una certezza.
Anche per questo e soprattutto per quanto riguarda l’Italia, non c’è da stupirsi, per esempio, che la fortissima ripresa di lungo periodo della produttività in Europa rispetto all’America fra il 1950 e il 2000 (in termini di Pil per ora lavorata: da meno del 50 ad oltre il 90 per cento di quella Usa) si sia soltanto in parte riflessa nel reddito monetario pro capite. Crollate le ore lavorate, si sono contratti beatamente gli anni dell’età attiva, fra l’altro con un enorme spreco sociale di risorse umane. Se non ci fosse di mezzo la competitività da cui dipende il nostro tenore di vita futuro ma ormai anche quello attuale, tra settimane più brevi, vacanze e soprattutto pensioni più lunghe chi non direbbe che la «civiltà italica» batte anche la douceur de vivre della cultura europea? Per non parlare di America, Oriente e Cina (pardon!)? E senza dimenticare, naturalmente, che dal 1999 la competitività della Germania, in base ai tassi di cambio reali - sempre euro è - calcolati sui costi relativi per unità di lavoro, è cresciuta del 10 per cento, mentre la nostra è diminuita di altrettanto.
La conclusione è semplice. C’è da essere estasiati per le invocazioni che si sentono da ogni parte alla concorrenza e alle liberalizzazioni, contro le rendite e a favore dei profitti, per l’investimento in capitale produttivo da parte di imprenditori che si scuotano da ogni possibile letargo.

Persino - ecco un punto coraggioso che pochi hanno rilevato nella relazione del presidente Montezemolo all’assemblea della Confindustria - una lancia spezzata per la tassazione indiretta rispetto al tabù di quella diretta: nella scia del Leviatano di Hobbes, di Einaudi e addirittura di un grande economista di sinistra come Lord Kaldor.
Se è vero che alla fine sono le idee che contano e non gli interessi costituiti, speriamo soltanto che fra tante convergenze il pentimento sia sincero e qualcuno non bari.

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