Confronto all’italiana

Confronto all’italiana

Visto dall’America non è stato un dibattito all’americana. qualcuno si aspettava forse che lo fosse, dato che il «formato» sembrava consentirlo o addirittura suggerirlo. Ma il formato evidentemente non è tutto. Berlusconi non è Bush, Prodi non è Kerry. Il «testa a testa» nostrano è stato formalmente più distaccato, più pieno di cifre, fortemente polarizzato nella sostanza e soprattutto personalizzato, ma ha mostrato, soprattutto nelle parole di Prodi, che il background del mondo politico italiano è molto differente da quello degli Usa. Particolarmente nel finale, il candidato del centrosinistra ha ritrovato i toni, e presumibilmente anche la sostanza, della pratica consociativa, che in un Paese genuinamente bipartitico come l’America non esiste. Il dibattito italiano ha dedicato inoltre più del 90% del tempo all’economia, relegando a ruoli marginali i temi che hanno invece dominato il faccia a faccia tra Bush e Kerry, nell’ottobre 2004. Non le ho contate ma certamente la parola Irap è venuta fuori molto più spesso della parola Iran per non parlare dell’Irak che è stato citato una volta sola. Una differenza che rispecchia, certo, il diverso ruolo mondiale del nostro Paese in paragone con gli Stati Uniti, ma con delle peculiarità non tutte scontate. Un altro contrasto: Bush e Kerry dedicarono oltre un quarto del loro tempo a quelle che in America si chiamano «social issues»: aborto, matrimonio fra omosessuali, ruolo della religione in genere, problemi morali e di costume. Due credenti a dibattito non hanno mai nominato Dio; lodevolmente perché vuol dire che non hanno cercato di annetterselo. Anche la parola «cultura» nel nostro senso, cioè il sapere, è stato affrontato nelle sue conseguenze pratiche, professionali, economiche; una differenza che ha dato l’impressione che l’Italia se ne interessi meno, mentre è il nostro, fra i due, il Paese più colto. I duellanti non hanno risparmiato i termini energici, parole forti sul piano personale che Bush e Kerry non si sarebbero mai potuti permettere. Accuse di dire le bugie, soprattutto in una campagna elettorale, riguardano in Italia peccati sostanzialmente veniali, mentre in America sono offese sanguinose. Berlusconi ha fatto poco ricorso all’ironia, Prodi ancora meno, mentre in America tradizione vuole che un oratore faccia uno scherzo, un aneddoto, una barzelletta almeno ogni dieci minuti. I tempi sono stati identici, questo sì, ed è una novità per il nostro cronometro politico. Ma non ci sono state battute fulminanti di quelle che decidono un dibattito. Non ne ebbero neppure Bush e Kerry, ma sono rimaste storiche quelle di Kennedy e di Reagan, quest’ultimo, criticato nel 1984 perché aveva compiuto 70 anni e si insinuava desse qualche segno di senilità, liquidò la questione assicurando che non avrebbe cercato di sfruttare la giovanile immaturità dell’avversario sessantenne. Né Berlusconi né Prodi hanno parlato delle mogli, dei figli mentre in America sembra che candidate siano delle famiglie più che delle persone. La separazione fra la vita privata e la vita pubblica è da noi rigorosamente, e civilmente, mantenuta. Quanto sarebbe piaciuto il dibattito Berlusconi-Prodi a un pubblico americano? Non è certo, ad esempio, che quest’ultimo avrebbe apprezzato più del nostro il bombardamento di cifre da parte del presidente del Consiglio: la concretezza si accompagna in America a più modeste attese culturali.

Un punto di contatto curioso è infine emerso, nei toni di Prodi, soprattutto verso la fine: gli sfidanti made in Usa promettono ogni volta «una nuova partenza», dei cambiamenti e quasi un rinascimento, se vinceranno, mentre il candidato in carica difende in sostanza la continuità. Il caso di Kerry fu un’eccezione con la rivendicazione di una continuità da parte dello sfidante. E Prodi ha fatto altrettanto.

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