Dietro la pittura moderna cè sempre una riflessione sul classico. Lassioma sembrerebbe inadatto a rappresentare il desiderio di rottura che termini come «avanguardia» e «contemporaneo» hanno imposto nellarte dal Novecento in poi. Invece basterebbe guardare con meno pregiudizi a chi si muove allinterno della tradizione per comprendere quali inquietudini e ansie di sperimentazione muovano un artista che la critica considera sorpassato e retrò.
Una visita alla mostra «Corot e larte moderna. Souvenirs et impressions», al Palazzo della Gran Guardia di Verona fino al 7 marzo, instilla più di un dubbio su dove si posizioni il confine tra che cosa si ritiene moderno (dunque attuale) e che cosa no. Nato a Parigi nel 1796, Jean Baptiste-Camille Corot si forma sulla pittura italiana. Più che studiare le tecniche in Accademia, sente il bisogno di viaggiare in Italia per respirare il clima dellantico. Allinizio non inventa nulla, ma dipinge paesaggi dal vero in maniera analitica e raffinata. Un tipo di pittura che lImpressionismo prima, le avanguardie poi, hanno relegato in una posizione di marginalità.
Eppure se ci soffermiamo sullaccostamento tra la veduta romana del Foro, dipinta da Corot nel 1826, e il paesaggio su Campo Vaccino di Claude Lorrain, eseguito oltre duecento anni prima, nel 1632, è facile intuire come il linguaggio di Corot contenga già gli elementi che andranno verso la fotografia. Mentre Lorrain o il fiammingo Van Bloemen, attivo tra Sei e Settecento, sono evidentemente classici, Corot è già intrigato dalla possibilità di contaminare il genere con sperimentazioni formali. Si rende conto che il soggetto non è la cosa fondamentale ma, al contempo, è ancora convinto si debbano intraprendere nuove soluzioni rimanendo ancorati alla verosimiglianza. Lo sguardo moderno si incrocia con la fiera resistenza dellautore classico, pur sapendo che quando il linguaggio la fa da padrone assoluto larte perde in sensibilità, bellezza, passione, rischiando così di giustificare qualsiasi azzardo, meglio se inconsapevole o improvvisato. Il paradosso della pittura di Corot (non solo sua, di tutti gli artisti che ancor oggi non sposano la causa dellavanguardia tout court) è che la scelta di lavorare allinterno di uno schema preordinato, di uniconografia riconoscibile, permette di spaziare alla ricerca di novità. Se invece la novità è la sovversione del linguaggio, non è affatto detto che loperazione riesca.
In mostra sono interessanti i paragoni tra pittori diversi che si cimentano su soggetti analoghi. Corot nel 1870 dipinge il ritratto di una giovane donna col mandolino. Lo stesso soggetto, e la stessa inquadratura, tornano nel Braque del 1922-23 e nel Matisse coevo. Ancora ispirandosi al «prototipo» corottiano, Braque ne esegue nel 1910 una versione cubista, quando la pittura realista aveva ormai perso la ragione di essere. Eppure nel quadro del 1870 qualcosa vibra, cè uninquietudine che spinge alla ricerca di altro, mentre allo schema del cubismo siamo così assuefatti da ritenerlo un passaggio obbligato nella storia dellarte. Il discorso si fa ancora più articolato per il paesaggio. Il vecchio Corot, poco prima di morire (nel 1875), cerca nuove soluzioni per fronteggiare la modernità di Cézanne, Monet, Sisley e Mondrian, e dipinge con mano incerta, indefinita, spezza le linee e abbozza le immagini. Colpisce leroismo solitario di un classicista disposto a disconoscere tutto e rimettersi in gioco come un ragazzo. Ecco perché questo pittore, titanico e superato, rischia di colpire di più dello sperimentalismo daccademia, dove se non esce un capolavoro ci si deve accontentare dellesercizio di stile.
Dunque, Corot è lultimo dei classici o, piuttosto, il primo dei moderni?
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