CROCE E DELIZIA

Angelina amore mio. Non è solo il bel Brad Pitt a dirlo alla mitica Angelina Jolie; lo disse anche il compassato e poco attraente filosofo Benedetto Croce a una più antica Angelina. Nella vita di don Benedetto quell’amore con una bella e allegra sciantosa durò vent’anni e ha contato più di quanto dicano i suoi biografi; ma contò soprattutto il dolore per la sua perdita, per la morte precoce di lei. Perfino la rottura con Giovanni Gentile fu legata a quell’amore perduto. Ad accennarne è Mircea Eliade nel suo bel Diario portoghese, uscito in questi giorni da Jaca Book (pagg. 314, euro 34).
Eliade racconta che aveva conosciuto nel 1941 all’ambasciata italiana a Lisbona il figlio di Giovanni Gentile, Benedetto. E questi gli aveva raccontato di donna Angelina, bella e piena di vita, che rallegrava la vita a Croce e viveva con lui more uxorio, uno scandalo per l’epoca. Angelina e don Benedetto ebbero uno stretto sodalizio con Gentile e la sua famiglia e furono perfino ospitati a casa del filosofo siciliano. Quando morì Angelina, Croce fu distrutto, e in seguito a questo grave dolore - un altro grave lutto della sua vita dopo la perdita dei genitori nel terremoto di Casamicciola - diventò irascibile e intrattabile, riferisce Eliade, si isolò dagli amici. Poi sposò una torinese «rigida e severa», che voleva cancellare il passato amore con Angelina e allontanare gli amici che ricordavano quel tempo, quella donna gioviale e quella relazione amorosa. Così, secondo il figlio di Gentile, si raffreddarono i rapporti con suo padre. A volte dietro solenni rotture filosofiche si celano motivi reconditi, legati alla vita, ai sentimenti e alle sofferenze. Dietro il grande divorzio idealistico nella storia della filosofia italiana del ’900, c’è il travaglio di una vicenda privata e l’avvicendarsi di due donne al fianco di Croce. Chi l’avrebbe mai detto...
«La mia vita è spezzata, perché io amavo Angelina più assai forse che ella non comprendesse» scrisse Croce a una cugina. Angelina Zampanelli era una romagnola gioviale che Prezzolini descriveva «di imperiale bellezza, più alta di lui, rassomigliante alla Teodora dei mosaici di San Vitale a Ravenna». Il suo fascino aveva stregato lo stesso Prezzolini e Renato Serra. Con Croce si erano incontrati a Salerno nel 1893, al caffè della stazione, gestito dai parenti di lei. Vissero insieme per molti anni, anche nella ex dimora di Goethe. Andarono spesso in viaggio insieme. Per la cagionevole salute di lei, che dal 1905 scoprì di avere problemi cardiaci, andarono in villeggiatura per sette anni consecutivi in un piccolo paese abruzzese, ospiti della cugina Teresa, a Raiano. Croce pensava che l’aria fina del paese avrebbe giovato alla sua Angelina. Ma fu proprio a Raiano, alla fine dell’estate del 1913, che Angelina morì. Nel registro dei morti, in data 1913, Angelina Zampanelli risulta come «moglie del Senatore Benedetto Croce». Non si sa se fu la pietosa aggiunta di un impiegato comunale per salvare la memoria di lei e la rispettabilità di lui dall’infamia della convivenza. O se, come scrissero i filosofi Nicola Abbagnano e Augusto Guzzo, Croce abbia sposato davvero in punto di morte l’amata Angelinella, che al paese chiamavano «la principessa» per il portamento giunonico.
Il crociano Gennaro Sasso escluse l’ipotesi di un Croce vedovo. In una memoria pubblicata su Il Tempo negli anni Sessanta, il fedele allievo di Croce, Edmondo Cione, che chiamavano «il vaccariello» perché andava sempre dietro la Vacca Sacra, don Benedetto, definisce Angelina «un’antica attrice di cafè chantant». Si deve invece ad Abbagnano la perfida definizione di sciantosa; fa impressione pensare all’austero Croce innamorato di quel che oggi si direbbe una «velina»...
Nell’ebbrezza del ménage con Angelina, il giovane Croce arrivò perfino, lui menomato alla gamba destra, a sfidare a duello il duca Riccardo Carafa di Andria in seguito a una divergenza sulla figura dantesca di Piccarda. Naturalmente perse il duello al primo sangue nonostante avesse preso lezioni di sciabola, alla presenza di D’Annunzio; e donò come pegno della sconfitta i suoi occhiali alla moglie dell’avversario, donna Errichetta. Ma la relazione con Angelina lo aveva riconciliato con la vita e lo avevo avvicinato perfino allo stile dannunziano del suo opposto conterraneo, il divo Gabriele. Lo studioso d’estetica visse con Angelina un po’ da esteta, il filosofo dello spirito si lasciò trasportare dalla carne e dal cuore.
Quando morì Angelina, raccontò Enrico Ruta a Prezzolini, Croce si disperò e pianse «con tutte le sue lacrime... non ho mai visto un uomo che ama la sua donna con tale passione». Alla cugina Teresina, don Benedetto confidò che la ferita aperta nel cuore «non si rimarginerà mai». Si sposò, disse, per non impazzire o non suicidarsi e per colmare l’insopportabile vuoto nella sua casa. Così pochi mesi dopo, per dimenticare Angelina, Croce sposò Adelina (decisamente meno avvenente e florida di Angelina, e sua conoscente quando era laureanda e si affacciava da Croce), dalla quale ebbe poi vari figli. Il ricordo di Angelina fu meticolosamente rimosso dalla vita di casa Croce, ormai trasferito a Palazzo Filomarino. Restò come unica traccia di lei, di quella ferita e del romanticismo nascosto e sofferto di don Benedetto, un ritratto di Angelina nella biblioteca di Palazzo Filomarino colta da Salvatore Postiglione nello splendore dei suoi ventinove anni.

Quante volte, nella solitudine del suo scrittoio, il vecchio Croce avrà sollevato gli occhi dai libri a vedere quel ritratto florido di un tempo gioioso e avrà ripensato alle perfide imboscate del destino, che ti dà l’amore quando sei immerso nella vita solitaria della mente, e poi te lo toglie quando senti di non poterne più fare a meno.

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