Addio a Enzo Bettiza. Fondò il Giornale e lo rese internazionale

Seguì Montanelli per creare un quotidiano libero e ne dettò da subito la linea culturale

Addio a Enzo Bettiza. Fondò il Giornale e lo rese internazionale

Enzo Bettiza, deceduto ieri all'età di 90 anni, ha avuto un ruolo fondamentale, sia pure limitato nel tempo, nella storia del nostro giornale. Nel 1974 fu, insieme con Montanelli, uno dei critici più severi della deriva sinistrorsa che stava prendendo il Corriere della Sera (dove era un inviato di punta dopo una brillante carriera di corrispondente da Vienna e da Mosca), al punto di accusare l'allora direttore Piero Ottone di avere «corrotto l'anima del giornale» e volerne fare «un quotidiano d'assalto» tipo Lotta Continua e Il Manifesto e di usare nei confronti dell'editrice Giulia Maria Crespi espressioni quasi irripetibili. Perciò, quando Indro decise di abbandonare il quotidiano di via Solferino per fondare Il Giornale nuovo, non solo lo seguì con entusiasmo, non solo assunse fin dall'inizio il ruolo di condirettore vicario, ma fu il più attivo reclutatore di giornalisti del Corriere, soprattutto quelli residenti all'estero, che condividevano la sua visione, ma erano indecisi sul da farsi. Ebbe successo con alcuni, come Dan Segre, non riuscì con altri, come Ugo Stille che non ebbe il coraggio di fare il gran passo. Ma il suo successo maggiore fu di far entrare nell'orbita del nascituro quotidiano i maggiori intellettuali francesi di tendenza liberale e anticomunista, come Revel, Aron, Fejto e numerosi altri. Un altro suo acquisto importante fu Frane Barbieri, un intellettuale jugoslavo epurato da Tito. Insomma, contribuì in maniera decisiva a dare alla nuova creatura un respiro internazionale, inserendola subito a pieno titolo nella famiglia dei grandi quotidiani moderati d'Europa.

Per Bettiza, che pure era passato da giovane per il Pci, l'anticomunismo era, più che un impegno professionale, quasi una religione. Forte anche dell'esperienza fatta in Urss, riteneva il comunismo in tutte le sue forme - il male assoluto, che andava combattuto con ogni mezzo; e quasi ogni suo editoriale rispecchiava questi sentimenti.

All'inizio, quando la sede del Giornale nuovo era ancora in piazza Cavour e lo spazio era scarso, condivideva la stessa stanza con Montanelli: tra loro c'era una profonda stima reciproca, ma sul piano umano i rapporti non erano sempre facili, anche per il differente approccio alla vita. I problemi nascevano soprattutto quando uno dei due doveva ricevere qualcuno, con evidente disturbo dell'altro. Noi redattori chiamavamo Bettiza il barone, non solo per il portamento naturalmente aristocratico, ma anche per un certo distacco dalla realtà di un quotidiano alle prime armi, dove mancavano i mezzi del Corriere e abbondavano i disagi. Molti attribuivano questa grandiosità alle sue origini: nato a Spalato, allora jugoslava, da una vecchia famiglia di imprenditori, costretto all'esilio dall'avvento di Tito, era sempre rimasto un po' un diverso, una figura sotto certi aspetti anomala nel panorama del giornalismo italiano.

L'impegno a tempo pieno di Enzo al Giornale durò fino al 1976 quando, insieme con Cesare Zappulli, fu eletto senatore per il Partito liberale, e poi deputato europeo dal 1979 al 1989. Continuava naturalmente a scrivere, ma per i suoi impegni politici era spesso assente e non poteva più occuparsi (non senza un certo sollievo degli addetti ai lavori) della cosiddetta cucina. Intanto, stava maturando un dissenso di fondo con Montanelli, che ha infine portato nel 1983 alla rottura e alla conseguente fuoruscita di Bettiza dal Giornale. Prima a Roma e poi a Strasburgo, egli aveva infatti maturato la convinzione che l'anticomunismo di stampo liberal-conservatore di Indro non avesse futuro e che bisognava portare il quotidiano su posizioni cosiddette lib-lab, cioè più aperte verso il nuovo socialismo di Bettino Craxi, di cui era diventato grande amico e che considerava l'unico uomo politico in grado di sconfiggere il Pci. Ma Montanelli non ci sentiva da questo orecchio, anche perché riteneva, credo giustamente, che i nostri lettori non avrebbero apprezzato un simile mutamento di rotta. Il conflitto di idee tra il direttore e il suo condirettore divenne gradualmente così aspro, che dopo l'abbandono della nave da parte di Bettiza i due non si parlarono più per ben tredici anni.

Ma i rapporti del barone con il Giornale non finirono qui. Quando, alla fine del 1997, Vittorio Feltri, che nel 1994 aveva preso il posto di Montanelli, lasciò a sua volta la direzione, Silvio Berlusconi invitò proprio Bettiza a prenderne il posto. La cosa sembrava fatta, ma saltò all'ultimo momento per una quasi immediata incompatibilità tra lui, che tendeva a fare un giornale più elitario e meno aggressivo, e Maurizio Belpietro, che doveva essere il suo braccio destro e riteneva un grave errore tornare indietro.

Così Bettiza assunse la direzione di Resto del Carlino e Nazione e poi finì la sua carriera, oltre che scrivendo alcuni bellissimi libri, come editorialista de La Stampa dove mezzo secolo prima aveva iniziato. Sul piano politico, tramontato il craxismo in cui aveva riposto tanta fiducia, arrivò addirittura a votare per la Lega, come confessò lasciando tutti di stucco - in una intervista con Aldo Cazzullo nel 2010.

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