Come nel gioco del Monopoli, si è tornati alla casella di partenza. E la partenza coincide con il 27 settembre, la data dei festeggiamenti grillini sul balcone di Palazzo Chigi. Nel pomeriggio di quel giorno il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni era inferiore al 3%, una soglia simbolica. Poi, quella sera, dopo aver approvato la «manovra del popolo», Luigi Di Maio ha stretto il pugno come per un gol segnato. La mattina dopo, gli operatori finanziari hanno letto le notizie, fatto quattro conti e iniziato a vendere quello che potevano. I prezzi sono scesi e il rendimento, che si muove in direzione contraria, si è impennato (quota massima il 18 ottobre con il 3,67%). Solo ieri, una volta confermata l'intenzione del governo di ridurre il deficit, gli acquisti hanno preso forza fino a portare stabilmente il rendimento sotto il 3%.
Il cerchio per il momento si è chiuso, ma in mezzo ci sono stati 76 giorni di Luna park: fantasiose proposte e controproposte di bilancio, proclami e dichiarazioni stentoree sui principi intangibili della manovra. C'è chi ha evocato il delizioso nonsense dei fratelli Marx e sarebbe anche divertente, se non fosse che per strada gli italiani hanno lasciato parecchi soldi. La Fondazione Hume ha calcolato che dalla fatidica fine di settembre i risparmiatori hanno perso una quarantina di miliardi. La cifra indica la diminuzione di valore della ricchezza finanziaria delle famiglie, soprattutto per i cali di Borsa e la perdita di valore dei titoli di Stato in portafoglio. Ma la valutazione non tiene nemmeno conto dei costi più rilevanti sostenuti per il finanziamento del debito pubblico o del maggior costo del credito, fattori che pesano per un'altra decina di miliardi, portando la somma a 50. Un parlamentare del Partito democratico, che è anche economista, Luigi Marattin, ha per esempio fissato a 728 milioni le maggiori spese per interessi solo per le aste di inizio ottobre.
C'è chi ha perso più degli altri, come gli azionisti, piccoli e grandi, delle banche. Non solo l'indice di settore ha avuto un andamento di gran lunga peggiore di quello di tutte le Borse europee, ma quasi tutti gli istituti hanno dovuto fare i conti con l'assottigliarsi del patrimonio, legato alla perdita di valore dei titoli di Stato tenuti in cassaforte. Come se non bastasse, l'innalzarsi dello spread ha pesato sui costi dell'approvvigionamento di denaro, la materia prima per chi si occupa di credito. Il caso più clamoroso è stato quello di Unicredit. Nel mese di ottobre ha emesso delle obbligazioni per finanziarsi sui mercati internazionali, in tutto tre miliardi di dollari. A prima vista nulla di drammatico: l'operazione era la copia esatta di quanto la banca aveva già fatto in gennaio. Solo che questa volta per trovare qualcuno disposto a concedere il finanziamento ha dovuto versare un interesse che era sei volte tanto quello di inizio d'anno.
Passando dai bilanci delle banche si arriva a un altro dei punti dolenti della situazione economica: il costo di mutui e finanziamenti. Patrimoni più risicati e difficoltà di raccolta sui mercati non possono non far salire i tassi chiesti ai clienti. Secondo il rapporto di novembre dell'Associazione bancaria si è già registrato «un incremento dei tassi di finanziamento, risentendo dell'aumento dello spread nei rendimenti dei titoli sovrani». E a sentire i primi dolori sono state anche le imprese: «Il tasso medio sulle nuove operazioni di finanziamento è risultato pari all'1,60% (1,45% il mese precedente).
Il peggio è che per il momento non c'è nulla che faccia pensare a
un cambio di rotta sostanziale del governo gialloverde. Le manie di grandezza sembrano ridimensionate, ma la direzione resta sbagliata.E nel 2019 il Tesoro dovrà emettere titoli di Stato per la bella cifra di 400 miliardi.
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