Ma Grasso dimentica la violenza di quando cacciò Berlusconi

Il presidente del Senato usa Palazzo Madama come clava: parla di strappi istituzionali ma lui ne ha compiuti tanti

Ma Grasso dimentica la violenza di quando cacciò Berlusconi

Adesso punta il dito contro gli strappi istituzionali, ma fu lui il primo a strappare. Non vuole sporcarsi le mani, ma lui le mani se le era già sporcate a suo tempo, nel 2013, quando forzò fin oltre il limite della decenza i regolamenti di Palazzo Madama per buttare fuori dall'aula il leader dell'opposizione. Lo scranno oggi gli sta stretto perché il Pd, quel Pd a trazione renziana, non gli va più a genio. Se la prende con il metodo adrenalinico dell'ex premier, fiducie a raffica e ritmi frenetici, ma lezioni di metodo non ne può dare. Anche se ha una storia importante, anche se il suo curriculum di magistrato si intreccia fino quasi a imparentarsi con quelli di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. No, il tratto da galantuomo, da nobiluomo in bianco e nero e la sua precedente vita in toga non possono bastare come uno scudo preventivo.

Grasso nella sua nuova esistenza cominciata per una trovata di Bersani che lo issò lassù, ha sempre predicato il rispetto delle minoranze. Ma la democrazia che voleva tutelare ha subito con lui una delle più gravi torsioni e lacerazioni della storia recente. Quando la Cassazione rese definitiva la sentenza di condanna per il Cavaliere, l'ex magistrato non si pose alcun problema. Anzi no, fu lui a porli agli altri: convocò la Giunta del regolamento che, sempre sotto la sua presidenza, forzò la mano all'inverosimile aprendo la strada al voto palese sulla decadenza di Berlusconi. Il nobiluomo che oggi vuole nobilitare il proprio addio al Pd, allora escogitò la più ardita delle motivazioni per cassare il voto segreto: quel voto non riguardava la persona del Cavaliere, ma il plenum dell'aula. Formalismo da farisei, un capitolo semplicemente incredibile. E, alla fine, per 7 a 6, con il cambiamento di opinione repentino di Linda Lanzillotta, il piano passò e la coscienza dei senatori fu messa a tacere.

Oggi Grasso potrebbe legittimamente aspirare alla guida di un'area inquieta e attorcigliata che sta a sinistra del Pd. Benissimo. Ma lui, per spiccare il volo e abbandonare il partito che l'aveva ricreato, cerca trampolini saturi di altisonanti motivazioni. L'etica è quel che conta. E allora chissà dov'era Grasso quando la legge Cirinnà, un testo che spaccava le coscienze e tagliava i partiti come una faglia californiana, tollerava la fiducia e, di più, la strage degli emendamenti in commissione. Un'anomalia, chiamiamola così, che è stata risparmiata ai parlamentari quando hanno affrontato la deploratissima legge elettorale: in commissione, almeno lì, si è discusso e combattuto.

E ancora, più in generale, si può dire che il governo Renzi ha sempre spinto sul pedale della fiducia. Con cifre da record. Basta pensare allo Sblocca-Italia o alla legge di bilancio dove, come ricorda sempre il battagliero Lucio Malan, anche Berlusconi avanzava a colpi di fiducia, ma almeno lasciava che le questioni venissero sviscerate in commissione. Oggi nemmeno quello.

Ma il presidente, lo stesso che accettava la ghigliottina sui voti segreti della riforma costituzionale come all'epoca del Terrore, solo oggi, quando le porte della politica si aprono, si indigna. E, invece di guardarsi allo specchio, fa la morale agli altri.

Stefano Zurlo

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