Cronache

Maradios

Diego ha deciso di morire come non aveva mai vissuto: in silenzio. Triste, solitario e finale, come il titolo di Osvaldo Soriano

Maradios

Diego ha deciso di morire come non aveva mai vissuto: in silenzio. Triste, solitario e finale, come il titolo di Osvaldo Soriano. Improvvisamente, lentamente, quest'anno maligno si sta portando via, i nostri sogni. Il risveglio è crudele, amarissimo. Diego Armando Maradona è stato un sogno anche quando era realtà, è stato rivoluzionario e conservatore, ha dipinto e firmato i quadri più belli di questo gioco di artisti e maghi e ingannatori. È stato lui truffatore e prestigiatore, è riuscito a toccare il cielo con le sue gambe tozze che creavano però giochi eleganti e imprevedibili per chiunque gli si ponesse davanti. Ha regalato il paradiso a chi continua a vivere nell'inferno di esistenze di margine, il calcio è una droga, sostantivo malefico che stavolta ha una efficacia forte e assieme cattiva.

Diego è stato il calcio, quello selvaggio, immediato, genuino nell'origine, nessuno gli ha insegnato come toccare il pallone, nessuno gli ha consegnato il libretto di istruzioni, si è svegliato sbarcando dal suo pianeta, quello degli eletti, i prati più verdi del mondo, quelli che lo hanno accolto dovunque, sono stati per lui uguali alla terra polverosa di Villa Fiorito dove aveva incominciato a pregare di diventare campione e vincere il mondiale con la camiseta albiceleste. Quello ha fatto. È stato autentico nelle sue contraddizioni continue, ha dribblato la vita, ha sfiorato la morte con le finte di eccessi voluti, desiderati, prima clandestini poi manifesti, è stato idolo del Boca e poi del Barcellona e poi del Napoli, luoghi giusti della sua esistenza tortuosa, un fuggitivo dalle regole, un ribelle però affezionato alla tradizione, la sfida per le Malvinas con la beffa del gol con la mano de Dios agli inglesi, la provocazione al Papa perché mettesse in vendita tutti gli ori e i preziosi del Vaticano, le risse verbali ai padroni della Fifa, vampiri del calcio, i tatuaggi di Fidel e del Che ma, insieme, quelli delle figlie, Djalma, Giannina, ma pure l'accusa di violenza alla ex moglie Claudia, allora, e sempre, angelo e demone, figlio di un'Argentina che continua a ritenersi madre, custode e depositaria della musica, della danza, del sesso, del piacere, del football, della vita.

Diego ha saputo essere uno, nessuno, centomila, randagio e solitario ma anche vivo e presente in mezzo alla folla, agitatore, provocatore, istigatore. Ha sussurrato al pallone, ha ispirato football, ha acceso luci in notti di noia, come tutti i geni non soltanto non ha avuto regole ma le ha rifiutate, le ha violate e con questo elevandosi sugli altri, come accade con i fuoriclasse.

È stato il Caravaggio del pallone, la sua arte in campo è stata poesia e romanzo assieme, letteratura di un'epoca senza rime, ha avuto l'ingordigia di chi è nato povero, ha usmato l'incenso, si è coperto d'oro, ha scoperto la mirra e attorno alla sua capanna non soltanto re magi ma filibustieri che gli hanno morsicato affetto e denari. Ha fatto la guerra al mondo, ha provato a sparare ai giornalisti, ha ballato il tango, ha fumato il sigaro con Castro, ha vestito una maglietta con lo slogan no-drug, ha allenato la nazionale, è andato a spassarsela a Dubai, è tornato nelle Americhe, ha vissuto in Messico, è tornato in Argentina, è stato internato in una clinica psichiatrica, ha continuato a guardarsi nei suoi specchi privati fingendo di riconoscersi, ma non era più lui, lo sapeva ma non aveva il coraggio di confessarlo, di pentirsi, non sarebbe più stato Diego Armando ma una povera vecchia gloria, un uomo qualsiasi. Si è buttato da mille aerei e sempre senza il paracadute, il rischio lo eccitava come una striscia di cocaina. Non gli interessava essere un hombre vertical, ha preferito mandare orizzontali gli avversari di cui ha però sempre tenuto rispetto, non del pubblico italiano che osò fischiare l'inno argentino e venne ripagato con un figli di puttana e poi con l'eliminazione.

Ha trascinato se stesso oltre il confine che non ha mai voluto riconoscere, avrebbe potuto vivere di rendita, insegnando calcio e vivendo nel lusso tra milioni di cortigiani. È rimasto idolo, immagine sacra venerata, re non del Napoli ma di Napoli e di tutti i napoletani, non lo stesso a Barcellona là dove hanno avuto la fortuna di godere con altri idoli. Ha gonfiato il petto al mondo per dimostrare sempre chi fosse Diego Armando Maradona, figlio di donna Tota e di don Diego, uguale a entrambi, lacrime e ghigno assieme. Filmati impressionanti da quel mondo e Diego barcollava e Diego era ubriaco e Diego si denudava e Diego era gonfio di sedativi e di altro ancora.

Il ricovero improvviso per aneurisma lo scoprì più fragile di mai. Non era l'inizio della fine. Era un passaggio previsto. Era un'altra partita da giocare. Non ci sono state parole e frasi urlate al cielo, pugni chiusi e mani sul petto. Ma la solitudine dell'eroe ormai sfinito, il tramonto malinconico e straziante di chi ci ha offerto zucchero filato e, assieme, pozioni acide. Restano i ricordi, resta la memoria di giornate trascorse assieme, restano i suoi capelli ricci, le stringhe slacciate delle scarpette, il palleggio con l'arancia, un bacio, una strizzatina d'occhi all'amico del suo rivale Michel, resta la polvere di questi giorni sempre più uguali e vuoti. Piange Napoli, piange Buenos Aires, piange Barcellona, piange la gente che ama il calcio e ha perduto non un campione, non un fuoriclasse, non un fenomeno ma Diego Armando Maradona che tutto questo è stato.

Ma forse ancora di più.

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