Coronavirus

La "sindrome umbra" preoccupa l'Italia

Che aria tira in una regione per due terzi in "zona rossa"

La "sindrome umbra" preoccupa l'Italia

“È una vita che sto qui ad Amelia, conosco pure i sassi di questa città. Ma una cosa del genere non l’avevo mai vista e mai l’avrei nemmeno immaginata…”. Non ha quasi parole Sandro Camilli, presidente dell’Associazione Italiana Sommelier dell’Umbria. Amelia, confine meridionale dell’Umbria con il Lazio, quasi 12mila abitanti. Da lunedì scorso è il più grande centro del ternano in zona rossa, in forza dell’ordinanza regionale numero 14 del 6 febbraio firmata dalla governatrice umbra Donatella Tesei. Un provvedimento che ha esteso a tutta la provincia di Perugia e a 6 Comuni in quella di Terni (oltre ad Amelia ci sono Attigliano, Calvi dell'Umbria, Lugnano in Teverina, Montegabbione, San Venanzo) il regime disposto dal Dpcm del 14 gennaio 2021. In pratica vigono la sospensione delle attività didattiche in presenza con attività a distanza per scolari oltre i 36 mesi, il divieto di consumazione di alimenti e bevande all'aperto nei luoghi pubblici, il divieto di distribuzione di alimenti e bevande mediante sistemi automatici, il divieto di svolgimento delle attività sportive e ludiche di gruppo nei parchi ed aree verdi, lo stop alle attività venatorie. In pratica sono in “zona rossa” 65 Comuni umbri su 92, cioè 682.600 cittadini su 882mila che risiedono nella regione. Più di 77 umbri su 100. Misura resa necessaria dai dati del ministero della salute che proprio in Umbria ha fatto registrare nella settimana dal 25 gennaio al 3 febbraio il tasso più alto in Italia di contagio Rt: 1,18.

La sindrome umbra allarma soprattutto per le varianti del coronavirus: quella brasiliana che ha colpito, ad esempio, l’ospedale Santa Maria della Misericordia del capoluogo Perugia, e quella inglese che ha avuto focolai nel nord della regione, sul Trasimeno e in una parte del ternano. E per il fatto che anche diversi bambini sono stati accertati come portatori sani del COVID-19. Ieri, 11 febbraio, il bollettino della Protezione civile certificava 7.553 cittadini umbri positivi, 520 ricoverati in ospedale (80 in terapia intensiva) e 7.033 in isolamento domiciliare. La progressione del coronavirus unita ai 18 casi di variante inglese e ai 12 di variante brasiliana del 7 febbraio hanno portato in “zona rossa” due terzi dell’Umbria. Riprende il suo racconto Camilli: “Qui ad Amelia siamo molto preoccupati. Anche se c’è più gente in giro rispetto al lockdown tra marzo e aprile del 2020. Del resto è sufficiente un’autocertificazione che attesti validi motivi di lavoro per spostarsi. Ma tra noi siamo preoccupati per le varianti del coronavirus, se ne sa ancora poco. E quel che si sa circa la velocità del contagio, non è affatto rassicurante”. L’onda lunga del perugino si è abbattuta su Terni e provincia: “Ad Amelia- continua Camilli- non siamo attrezzati con un ospedale per l’emergenza COVID, per cui il nostro riferimento è il Santa Maria di Terni, che però allo stato è pieno di ricoverati. È un problema serio. E poi qui in città siamo rimasti abbastanza stupiti dalla nascita del focolaio d’infezione”. Il riferimento è al giallo del 17 gennaio scorso, quando in un locale adiacente alla chiesa intitolata a Padre Massimiliano Kolbe si ritrovano per una riunione (c’è chi parla di un rinfresco) dopo la messa pomeridiana una decina di catechisti, tra cui un assessore comunale. Nei giorni successivisi si registra un balzo dei contagiati in città, una ventina, che porta il numero complessivo dei positivi a 87 in una sola settimana. E assieme al focolaio si accende la polemica politica. Ma il problema ora è anche per i danni all’economia. “La scorsa estate- ricorda Camilli- noi umbri eravamo tutto sommato fiduciosi. Avevamo evitato la prima ondata e il virus sembrava sulla strada della sconfitta. Raramente avevo visto tutti quei turisti ad Amelia, soprattutto un grande flusso da Roma per la classica gita fuori porta. Poi in autunno è arrivata la seconda ondata che ha messo in ginocchio i negozi, il commercio, l’artigianato, il turismo: un disastro.

Anche la filiera dell’enogastronomia, che conosco meglio sul campo, è a soqquadro. E quella sanitaria ci fa preoccupare. Un mio amico commercialista mi ha detto che contatta i suoi clienti per telefono e sono quasi tutti in isolamento domiciliare! Speriamo nei vaccini, non so più cosa pensare…”. Spostandosi nel nord della regione la situazione non migliora, anzi. La Provincia perugina e il capoluogo sono colorati di un rosso cupo. “Chiedo scusa, parlo a bassa voce perché in casa ci sono i miei figli che stanno facendo lezione con la didattica a distanza…”: un papà attento Pietro Marchi, titolare di un ristorante “pizza e champagne” a Corciano, nella cintura urbana del capoluogo Perugia. “Il mio ristorante è chiuso dal 24 ottobre scorso- prosegue Marchi. Siccome non ci siamo organizzati con l’asporto e con la consegna a domicilio, stiamo vivendo una situazione davvero difficile da sostenere”: non si lascia prendere dallo sconforto. “Quando abbiamo aperto a maggio 2017- ricorda Marchi- le cose andavano bene, i clienti apprezzavano la nostra offerta e restavamo aperti solo a cena. Ora sta diventando una missione impossibile. Stiamo pensando di riconvertirci sui prodotti da lievito, per lo scorso Natale abbiamo confezionato i panettoni artigianali, per le festività pasquali faremo colombe e panettoni salati. Ma le spese, i collaboratori, il magazzino, i fornitori. Le spese sono davvero tante! E poi davvero mi amareggia il fatto che l’emergenza era costituita secondo il governo da due persone sedute a cena a oltre un metro di distanza l’una dall’altra. L’altro giorno sono uscito a fare jogging a Perugia, vivo in città, e ho visto il mercato all’aperto di Pian di Massiano, vicino allo stadio Curi. Hanno diritto di lavorare come tutti gli altri anche gli ambulanti, ci mancherebbe. Ma il concetto di sicurezza lì come altrove, ad esempio nei bar durante la zona gialla, mi pare diventi relativo”. L’ospedale di Perugia, il Santa Maria della Misericordia, è diventato l’immagine drammatica dell’emergenza umbra: ambulanze in fila, tendoni dell’esercito nel prato esterno e stop a tutti i visitatori. “Certo, chi è passato nei pressi dell’ospedale- precisa Marchi- è preoccupato da uno scenario simile. Ma in effetti questa “zona rossa” lascia una percezione diversa rispetto quella di marzo 2020. All’epoca quando andavo a ravvivare il lievito madre nel mio ristorante non incontravo anima viva per strada. Ora di gente ne vedo, non tanta, ma c’è. E sinceramente non avverto tra le mie conoscenze un aumento così esponenziale die contagi”. Sia Camilli che Marchi usano la stessa espressione che sta consumando lo spirito accogliente e gioviale delle genti del cuore verde d’Italia: tira e molla. L’Umbria conta circa 39.800 cittadini contagiati. Ma era partita con indici di contagio tra i più bassi d’Italia e la timida speranza di restare a lungo una terra COVID-free. Il 9 ottobre 2020 i cittadini positivi al coronavirus erano circa 3.000.

Poi l’impennata improvvisa e angosciante, certificata dai dati ufficiali di Regione Umbria: un mese dopo 15.200, il 9 dicembre 25.400, il 9 gennaio 30.600, il 9 febbraio oltre 39.000. E poi i focolai con le varianti inglese e brasiliana. Gli umbri potrebbero svegliarsi nei prossimi giorni in una regione che rischia di essere dichiarata interamente “zona rossa” vecchio stile, cioè con le restrizioni vigenti tra marzo e aprile 2020. Il caso umbro dimostra una volta di più quanto sia infido questo nemico invisibile. Che quando sembra inesistente o sconfitto riemerge più forte di prima. L’Italia guarda angosciata al suo cuore umbro per solidarietà con luoghi e comunità familiari e tipiche della nostra identità, certo.

Ma anche perché ha paura di una proiezione su scala nazionale della “sindrome umbra”.

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